La via del “ci risolleveremo e saremo meglio di prima” è piena di sputi e imprecazioni

Impressioni dal brutto e marcio dell’alluvione in Romagna. Non è il regno idillico dell’altruismo: molti patiscono la botta. È più sotto che si dovrà stanare la speranza, facendo il necessario ora che l’indispensabile è andato perduto

Come al fronte, c’è una linea oltre cui l’ordine di grandezza e l’unità di misura del mondo cambiano repentinamente, lo sguardo ne percepisce subito l’impatto ma la comprensione arranca. La campagna risplende di papaveri e grano verde. All’improvviso compaiono cumuli di roba sulla strada, in certi punti occupano un’intera carreggiata. Si percepisce prima la mole di una catasta indistinta, poi gli oggetti enormi come frigoriferi e lavatrici, poi lo sconcerto trabocca notando i dettagli minuti. Ci sono ciabatte e spaghetti in quel mucchio? Sì. Le benne raccolgono e caricano senza pietà, frantumando in un’unica poltiglia il mondo domestico di intere famiglie. Tutto quello che poteva stare dentro una casa è sfondato, intriso di melma e gettato sulla pubblica via. Il cibo per i gatti ha impregnato le tovaglie ricamate a mano. Tantissimi sacchi di pellet, che era arrivato a costare cifre incredibili, sono sbriciolati come sabbia sull’asfalto. Ciusté, in dialetto romagnolo significa una schifezza che sa di brutto e di marcio.

Sotto il ribollimento indaffarato qualcosa è bloccato

Oltre la linea del fronte si va a piedi. E a Sant’Agata sul Santerno i piedi affondano nel fango, così com’è affondata un’intera comunità. C’è un gran da fare, ma sotto il ribollimento indaffarato degli uomini qualcosa è bloccato. Gli oggetti mentono meno della solerzia iperattiva e generosa della gente. Le auto sono radunate in uno spiazzo con le ruote a terra e il cofano aperto, quasi attonite bocche spalancate. Non nascondono la resa, in una posa storta. Un cassonetto dei rifiuti è finito in mezzo a un vigneto, non ha pudore nel mostrare che qui persone e cose sono state travolte da un colosso di forza distruttiva e poi sbattute per terra o contro i muri. Fuori posto a casa propria.

Non c’è più la proprietà privata, porte e cancelli e finestre vomitano macerie semiliquide. Si sta impantanati in un fango infido che avvinghia i piedi e se fa presa è come finire nelle sabbie mobili. Qui è una lotta persa, bisogna dirselo. Certo, a voce alta ci si fa forza, ci s’incoraggia e si ostenta l’orgoglio romagnolo che non piega la testa e il cuore. È una testardaggine allegra ed effervescente che fa bene. Esiste un’euforia da catastrofe e fa il suo sporco dovere, dopare le energie nel momento critico. Benedetto sia il ronzio operoso dei volontari che sovraffollano le stradine e fanno l’impossibile.

Non è il regno idillico dell’altruismo e della compagnoneria

Ma è più sotto che si dovrà stanare la speranza, lì dove adesso cova un non detto di smarrimento, sopraffazione, vuoto. Il silenzio pestato degli oggetti ridotti a poltiglia è anche dentro le anime. Si mostra in minuscoli istanti rivelatori. Una signora piange guardando i nipoti indaffarati a svuotare l’ingresso di armadi pieni di roba da buttare. Poi si mette a fare il caffè e va ad offrirlo ai ragazzi che lavorano per strada. Nel solleone del primo pomeriggio un vecchio porta un compressore dentro una carriola e grida «Tu ridi troppo!» contro un ragazzo a petto nudo che mitraglia a ripetizione battute sconce mentre carica mobilia sfondata su un furgone. Quello gli risponde: «Cosa vuoi? È da stamattina che sono qui a pulire la tua strada».

Il volto più onesto del soccorso è la ruvidità brusca di chi sta a denti stretti nello sconforto e non può riposarsi, i gemiti dell’anima che aggiungono zavorra ai muscoli indolenziti. Non è il regno idillico dell’altruismo e della compagnoneria, la via del “ci risolleveremo e saremo meglio di prima” è piena di sputi, imprecazioni e pure di bestemmie. Se ne sentono parecchie per strada, accanto a preghiere spontanee d’indicibile tenerezza. Sottotraccia corre l’esasperazione di chi patisce la botta di un urto da schiacciamento, è tutta da giocare la partita con la certezza che anche una sventura potrà mostrare riflessi di una benedizione. Per qualcuno resterà una maledizione contro cui inveire, inacidirsi, disperarsi.

La tenacia con cui si risponde al colosso di un’alluvione

Ecco perché si risponde al colosso di un’alluvione con una tenacia infiltrante, capace di incunearsi nelle fessure più piccole. Dentro una casa si sente il tramestio di una donna indaffarata al lavello, risciacqua minutaglie come tazzine e cucchiaini, poi butta l’occhio fuori dalla finestra e ringrazia le ragazze infangate che sono per strada e hanno appena buttato su un rimorchio tutto il salotto di casa sua.

C’è un’altra linea del fronte, quella che separa l’imponente mole di roba perduta dalla custodia di minutissimi giardini di umanità da riguadagnare centimetro per centimetro. L’unità di misura diventa quella del cucchiaino pulito in una casa vuota e distrutta.

Sulla statale c’è una coda infinita di camion pieni di macerie e rifiuti, mezzi pesanti dell’esercito e dei vigili del fuoco, trattori e atomizzatori agricoli. Ma arriva anche una signora su una bicicletta con un cestino rivestito di tela a fiori. Abita fuori dall’apocalisse che è il centro di Sant’Agata ed è venuta a portare qualche asciugamano pulito alle famiglie travolte dal disastro. Che può mai fare una come lei contro una barbarie che ha sbattuto un cassonetto in mezzo a un vigneto, che ha maciullato in poltiglia intere abitazioni? Può fare il necessario, quando l’indispensabile è andato perduto: curare e tenere d’occhio quelli che le sono accanto, trattandoli come il miracolo nascosto in un pantano funesto.

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