La magistratura ha radiato Palamara per non dover radiare se stessa

Il Csm ha finto di sconfiggere «il mostro» per salvarsi. Ma la verità è che «il sistema si è riconosciuto» in lui. Subito la commissione d'inchiesta invocata dai radicali

Tutto come previsto. Luca Palamara è stato radiato dalla magistratura con una sentenza arrivata a conclusione del processo più veloce che si sia mai visto nella storia dell’Italia repubblicana. E probabilmente anche dell’Italia fascista e monarchica.

«Una decina di udienze in dieci giorni», ricorda il condannato.

L’ex procuratore di Venezia Carlo Nordio parla di «processo stalinista». Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali italiane, di «pratiche esorcistiche». E nella stessa corporazione giudiziaria, sul blog dei togati non iscritti ai sindacati, il magistrato Nicola Saracino verga il giudizio più pesante (e inquietante) sul modo di operare dell’organo di giustizia e di autocontrollo della magistratura più importante, presieduto dal presidente della Repubblica:

«Il “mostro” è sconfitto. 

Era chiaro a tutti che il problema della magistratura fosse individuale, un solo prepotente elemento capace di nullificare la volontà del Csm che si prostrava ai suoi piedi. 

Così come i tantissimi questuanti che ora fingono di non conoscerlo. 

A loro è stata promessa, in forma scritta, l’immunità dal potenziale accusatore: non saranno punibili per le loro ignobili suppliche e per le misere progressioni di carriera ottenute a dispetto della dignità e della lealtà nei confronti dei colleghi. 

Questi sono magistrati che il sistema piazza a capo degli uffici, è documentato. 

E tutti siamo disposti a credere che quanti non siano incappati nelle chat di Palamara sono invece delle candide verginelle, fino a trojan contrario. 

La realtà è che in Palamara il sistema si è riconosciuto, ha visto sé stesso.

Ed ha quindi implicitamente ammesso, sebbene con la punizione del solo Luca Palamara, che la magistratura degli ultimi 20 anni merita la radiazione. 

Tuttavia il sistema è salvo, per ora.

Serve un’indagine credibile affidata a poteri estranei alla magistratura, una commissione d’inchiesta parlamentare». 

DIECIMILA EURO IN DIECI ANNI

Dopo il rifiuto della corte (presieduta dal laico Fulvio Gigliotti, in quota 5 stelle) di ammettere i 133 testimoni richiesti dall’avvocato di Palamara e consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, la difesa aveva chiesto l’assoluzione o due anni di sospensione in attesa della sentenza del processo di Perugia in corso all’ex presidente dell’Anm (2008-2012) ed ex consigliere del Csm (2014-2018).

Processo di Perugia dove, caduta l’accusa più grave (senza la quale però non sarebbe stata autorizzabile l’inoculazione del trojan nel cellulare dell’ex vertice dell’Anm), caduta cioè l’imputazione di corruzione per aver “venduto” al prezzo di 40 mila euro la poltrona di procuratore a Gela, Palamara rimane imputato per “utilità” varie. Che, tra camere di albergo, viaggi e un ciclomotore in affitto, ammonterebbero a qualcosa come poco più di diecimila euro totali. In dieci anni.

TROJAN A INTERMITTENZA

Naturalmente gli inquirenti non potevano sapere: né che si sarebbe rivelata falsa l’accusa che aveva autorizzato il trojan per l’ascolto e monitoraggio “totale” della vita di Luca Palamara; né, come ha scritto ironicamente Paolo Mieli (e inutilmente la difesa ha segnalato al processo) che il dispositivo di ascolto e monitoraggio totale «intercettava con modalità intermittenti». 

Già, come poteva essere autorizzato a funzionare il trojan quando carpiva le conversazione dei parlamentari all’hotel Champagne, dato che è espressamente vietato dalla legge l’intercettazione che non sia autorizzata dalle Camere di appartenenza (a meno che l’intercettazione avvenga casualmente)? Insomma, quando si avvicinava ai massimi vertici delle istituzioni, il trojan inspiegabilmente non funzionava. Mentre con i parlamentari, a quanto pare, funzionava sempre casualmente. 

NON FINISCE QUI?

Morale della favola, scandita la sentenza che ha tolto a Palamara la toga per «comportamenti di elevatissima gravità», ma anche di «una gravità inaudita», ovvero per aver egli tramato «per condizionare, in modo occulto, l’attività istituzionale del Csm» (in sostanza le manovre per portare in cima alla procura di Roma Marcello Viola, capo della procura generale di Firenze e magistrato di corrente non di sinistra, nomina per altro votata dal Csm e cassata solo in seguito alla divulgazione delle intercettazioni della cena all’hotel Champagne tra Palamara, i parlamentari Cosimo Ferri, Luca Lotti e altri consiglieri del Csm), l’ex potentissimo dell’Anm ed ex influentissimo del Csm non si è dichiarato «vittima sacrificale».

Si è infilato nella sede del Partito radicale promettendo di continuare la sua battaglia, a testa alta, per dimostrare che le «manovre» e gli «accordi» di supposta «gravità inaudita», le cene con il mondo della politica, gli intrallazzi al Csm eccetera, sono cose del tutto consuete, nel mondo della magistratura lo sanno tutti, accadono da quarant’anni e soprattutto sono accadute nell’ultimo ventennio in cui politica e Parlamento sono stati rasi al suolo. 

«MI HANNO REGISTRATO UNA VOLTA SOLA»

Dice Palamara nella conferenza stampa che svolge nella sede dei radicali subito dopo il verdetto che lo condanna:

«Prima cosa, impugnerò la sentenza davanti alle Sezioni unite. Secondo, andrò in Corte europea per i diritti umani in quanto non mi è stato concesso di difendermi in modo adeguato. 

Dopo di che, io non sono qui oggi per accusare qualcuno, sono qui per rammentare dei fatti. I miei ruoli di vertice in Anm e poi in Csm connotavano in maniera diversa il lavoro del magistrato. Ma erano cariche rappresentative in seno alla magistratura. Cariche che fisiologicamente portano a interloquire, discutere e confrontarsi all’interno dell’Anm sia per le nomine negli uffici giudiziari sia, all’esterno, nelle questioni più generali in tema di giustizia.

Non ho mai concepito il politico come un nemico, ma come rappresentante dello Stato con cui confrontarsi.

Non devo dire adesso con chi altri sono andato a cena oltre che con l’onorevole Lotti. Lo farò quando avrò recuperato la documentazione in proposito e circostanziando le situazioni. Indicherò trattative, accordi, nomine… come si è arrivati alla definizione di carriere e uffici giudiziari. Voglio essere preciso. Non dico nulla adesso. Anche perché non giravo con un registratore in mano.

Per adesso posso solo assicurare che cene nel corso della mia vita ne ho fatte tantissime. E sono stato registrato in una sola».

STESSO METODO PER «TANTE NOMINE, NON UNA SOLA»

Però, perché il “potentissimo” e “influentissimo” si è ritrovato solo, senza che neppure i suoi «tantissimi questuanti», come li ha definiti magistrato Saracino, scendessero al suo fianco?

«Non sono mai stato per l’opzione Sansone», spiega Palamara. «Ho cercato di difendermi in modo circostanziato. Per questo avevo bisogno dei tanti testimoni per contestualizzare e documentare situazioni simili all’hotel Champagne.

La pubblicazione delle chat – che è un deposito agli atti – ha molto infastidito i magistrati colleghi. Comunque sia – ripeto: sono gli inquirenti che le hanno rese fruibili, agli atti – quelle 60 mila pagine tra chat e quant’altro, rappresentano uno spaccato di come funzionavano gli accordi, di come funzionava il sistema, di come si arrivava in cima agli uffici giudiziari.

Piaccia o non piaccia, questo era il contesto delle nomine. Non il contesto della nomina di uno solo. Ma il contesto di tante nomine.

Tanto per esemplificare: i segretari di corrente entravano al Csm e indicavano i nomi di chi bisognava votare per una carica piuttosto che un’altra».

GLI ORRORI DELLA GIUSTIZIA ITALIANA

In introduzione di conferenza il segretario radicale Maurizio Turco aveva ricordato che non era per niente peregrina la comparsa di Palamara alla corte pannelliana. Benché da ex segretario dell’Anm fosse stato su posizioni diametralmente apposte a quelle dei radicali (per esempio in materia di separazione delle carriere e obbligatorietà dell’azione penale), Turco ha spiegato bene perché il “caso Palamara” è un caso radicale e italiano per eccellenza:

«È dal 1969 che noi ci battiamo per una giustizia giusta. E nelle pieghe neanche nascoste del processo Palamara abbiamo ritrovato gli orrori della giustizia italiana».

Vale la pena ribadire per il segretario del Partito radicale Turco:

«Non so quante volte abbiamo ricorso ai referendum, li abbiamo vinti e il Parlamento li ha subito traditi. Per esempio quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Che con Renzi è diventato una legge che non contempla la responsabilità civile dei magistrati. 

Come Partito radicale promuoviamo una commissione giustizia. E invito il dottor Palamara a farne parte per fare luce a un quarto di secolo di giustizia in questo paese».

SALVINI CI STA RIFLETTENDO?

Tocca all’avvocato Giuseppe Rossodivita a delineare l’altro processo che dovrebbe innescare il caso Palamara:

«C’è una riforma urgente della giustizia che non riesce a essere messa al centro dell’agenda di questo paese: la necessità di fare in modo che i magistrati italiani siano autonomi e indipendenti. Oggi non lo sono. Non lo sono dalle correnti che governano l’Anm e, a catena, non lo sono in Csm. Urge la ricontestualizzazione dei grandi processo degli ultimi vent’anni». 

Su questo punto Luca Palamara si è detto pronto a collaborare con una eventuale commissione di inchiesta. Che da ieri, 9 ottobre 2020, hanno cominciato a chiedere i radicali. 

E sì, certo, commissione di inchiesta che nei prossimi giorni – se la politica non vorrà correre a di nuovo a nascondersi e a suicidarsi (chissà se Matteo Salvini ci sta riflettendo) – diventerà richiesta urgente da parte di uno schieramento parlamentare bipartisan. Naturalmente a meno che con la scusa del Covid non mettano il Parlamento in definitivo lockdown.

Foto Ansa

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