La domanda posta da Covid che smaschera l’eutanasia

«Come vorrei che fosse amata la mia vita fragile e minacciata?»: così il reale ha fatto irruzione nelle esistenze in balia della retorica sulla "dolce morte". Parla il vescovo Nazzareno Marconi

«Non c’è stato un episodio specifico, ma siccome da vescovo non ho cessato la buona pratica di fare meditazione ogni giorno sulla parola di Dio e sulla vita quotidiana, la riflessione come tante altre è scaturita naturale. Poi spesso medito sulla fede e sulla mia poca fede e questo ha subito messo a fuoco il tema». La scorsa domenica monsignor Nazzareno Marconi, vescovo di Macerata Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia, ha scritto ad Avvenire. Ha scritto una magnifica lettera sullo svuotamento della retorica dell’eutanasia, sulla perdita di attrattiva della “dolce morte” di fronte alla brutalità, concretezza e vicinanza della prova di Covid.

LA SPINA CHE SALVA LA VITA

«Che cosa è cambiato? Che quel vecchio plurimalato in terapia intensiva, non era più un caso medico lontano e astratto, ma poteva essere sostituito da ciascuno di noi. Ognuno si è visto nel suo letto ultratecnologico, attaccato a una macchina salva vita, con pochissime possibilità di farcela. E la domanda: “È meglio staccare la spina?”, l’opinione pubblica se l’è posta, per la prima volta, non come esercizio astratto di riflessione, per persone lontane e anonime, ma ciascuno per sé», ha scritto monsignor Marconi. Che con tempi.it ribadisce e si chiede se non c’era bisogno di un caso di cronaca (come sempre accade) per intervenire sul tema. Ora una riflessione sui media e sul cambio di registro utilizzato per parlare di medici e macchine (da “accaniti” a “eroi”, da macchine a cui “staccare la spina” a macchine salvavita da assicurarsi “ad ogni costo”), andrebbe fatta: «Un altro punto di meditazione è quanto l’opinione pubblica, che si crede libera, è in realtà tanto condizionata dai nostri vizi e dall’azione dei media, che cercano spesso di indirizzare i nostri pensieri. Gesù dice: “Siete semplici come le colombe, ma anche prudenti come i serpenti”».

IL VESCOVO E LA TV “OMNIA MUNDA MUNDIS”

Per parte sua, il vescovo racconta di aver vissuto i mesi passati «proprio come dice Gesù: con prudenza e semplicità. Dando ascolto a quanto ci veniva indicato. Cercando di mostrare ai fedeli ed al clero vie sagge che non mettessero in pericolo la vita ed al tempo stesso che si prendessero cura anche dell’anima. Come vescovo per grazia di Dio ho sempre potuto fare le due cose più importanti che fa un vescovo: pregare e predicare. Pregare lo si può fare sempre ed in ogni condizione. Predicare è stato a volte più complesso, l’ho fatto anche tramite tv, radio ed internet, senza paura, confidando nel buon consiglio che dà Manzoni nei Promessi Sposi per situazioni di emergenza: “omnia munda mundis”. Che ci sia riuscito non è certo, che ci abbia provato come la stragrande maggioranza dei preti e dei vescovi italiani, è sicuro».

LA PREGHIERA DEL CALVO

Sicuro col dilagare del Covid tutto è cambiato, ciascuno di noi ha potuto nel suo piccolo fare esperienza dell’umanissimo desiderio di essere salvato. Ma salvato per cosa, in nome di chi? «Gesù dice che è stato mandato ad evangelizzare i poveri ed è vero che se si è poveri il cuore è più aperto ad accogliere il Vangelo, come se si è piccoli, cioè coscienti della propria fragilità, si apre meglio il cuore ad un annuncio di salvezza. Tutti siamo sempre poveri e piccoli davanti a Dio, ma finché non giunge la croce a farcelo capire, siamo spesso tentati di crederci onnipotenti – spiega il vescovo -. Oggi pochi si sentono creature di Dio, quasi che ci fossimo creati da soli o potessimo allungare anche di un solo giorno la durata della nostra vita. Ogni mattina mi guardo allo specchio, vedo i miei capelli che non ci sono più e mi ricordo che non sono Dio. Questa “preghiera del calvo” farebbe bene a chi crede di salvarsi da sé».     

L’EUTANASIA SMASCHERATA DA COVID

La morte è letteralmente entrata nelle case degli italiani, nei letti in ospedale si combatteva fino all’ultimo respiro. La sofferenza, presupposto di ogni ragionamento eutanasico, ha paradossalmente svuotato la retorica dell’eutanasia, perché «come dice papa Francesco in uno dei suoi famosi quattro principi: “La realtà è più importante dell’idea” (EG 231-233). Cioè davanti ad ogni ideologia la forza del reale, per quanto negata e nascosta, prima o poi riemerge. Ed è reale che ogni uomo è creato da Dio “chiamandolo alla vita”. Questa vocazione fondamentale a vivere e far vivere è alla base di tutto, l’amore per la nostra stessa vita ci dà la misura dell’amore vero per la vita del prossimo. L’eutanasia è un amore falso per la vita degli altri che la domanda posta ad ognuno di noi dal Covid – “Come vorrei che fosse amata la mia vita fragile e minacciata?” – ha subito smascherato». 

PARLARE DI “AMORE” A VANVERA

La domanda ce la siamo forse posta tutti inconsciamente assistendo al gravissimo incidente di Alex Zanardi. E c’è da chiedersi se non sia anche questa l’eredità di Covid, un giudizio più reale e non un sentimento astratto sul significato della sofferenza. Ma «sentimento vero e ragione non si oppongono – spiega monsignor Marconi -. L’emozione, fragile e subitanea, provocata da fatti esterni e molto epidermica, non va d’accordo con la ragione, ma i sentimenti come la compassione, sono una cosa seria. Un sentimento è un sentire profondo e stabile, che viene dal cuore ma dialoga con la mente. Oggi usiamo un vocabolario che spesso ha perso la profondità delle parole. Pensate che usiamo la parola “amore” sia per parlare di Dio, che dell’ultimo modello di auto che vorremmo comperare… Se questa esperienza ci aiutasse a pensare un po’ prima di aprire bocca non sarebbe passata invano».

Foto Ansa

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