La dimora e l’esame

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Da qualche tempo la signora A, più che cinquantenne, faceva insistentemente due sogni, sempre gli stessi. Nel primo si trovava a ritornare in una grande nobile casa, che forse era stata sua al tempo dell’infanzia, ma che poi aveva abbandonato e dimenticato di possedere. La casa infatti, una bella villa antica in campagna, esternamente mostrava un giardino incolto, lasciato andare, con le rose rampicanti sui muri che contendevano il posto a straripanti gelsomini; e c’erano cardi nel prato, e ortiche, così che era evidente che di quel giardino nessuno si curava. La casa però, all’interno, mostrava ancora la sua dignità originaria: lunghe fughe di luminose stanze, ampie vetrate, corridoi infiniti, e scale, ampie scale misteriose sempre invitanti a salire ancora – benché da fuori ad A. paresse che la villa avesse solo due piani. C’erano poi, lei lo sapeva, in quella dimora, nascoste stanze piene di tesori. Come la casa fosse stata sua e poi lei l’avesse scordata, era incomprensibile alla signora A.; che tuttavia sempre usciva da quel sogno con un sentimento di affascinata nostalgia.

L’altro sogno che regolarmente da mesi si affacciava nelle notti della signora A. era che lei era chiamata a dare un esame, nei locali del suo liceo, da ragazza. Ma la materia di questo esame era del tutto sconosciuta; e A. non aveva aperto uno solo dei voluminosi libri dal titolo illeggibile che si vedeva davanti; e proprio non sapeva di che cosa le si sarebbe chiesto in quell’esame, e la sua assoluta ignoranza la metteva nel panico. Si svegliava sudata, realizzando a fatica che era stato solo un incubo, e allungava rapida la mano al comodino, a accendere la luce. I due sogni si presentavano con scadenza e puntualità tali, che A. ne era sbalordita. «È come – si diceva – se qualcuno dentro di me mi scrivesse ostinatamente delle lettere, sempre le stesse, ma io non ne capisco le parole».

Una mattina nel suo letto A., reduce dai suoi due consueti sogni, si chiese se in verità non alludessero alla stessa cosa. Al suo dovere un giorno tornare in una dimora, in una patria, bella, regale e dimenticata; a un originario “prima” da cui veniva, scordato negli affanni e nella corsa della vita. E l’esame, l’esame di cui ignorava tutto, disperatamente, non poteva essere il salto cui ci si troverà davanti un giorno, la percezione di un balzo nel buio, di cui non sai, non possiedi, non hai studiato niente? C’è una parte di me, si disse A., che mi sta preparando all’idea della morte. Non si chiese se la cosa dovesse essere prossima, o lontana: non voleva usare quei sogni come carte di tarocchi.
Sta di fatto, si disse, che qualcuno in me tira le fila delle cose, e degli anni. La stupì però che nel primo sogno splendesse una sovrana certezza: la dimora cui doveva tornare era nobile, era antica, era buona. Non importava che lei l’avesse dimenticata: la grande casa la aspettava, fedele. Che strano, si disse A., che anche nel fondo di un sogno abiti questa certezza di un bene. Come scritta in sé, come misteriosamente incisa nel cuore.

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