L’Italia celebra Falcone mentre ne tradisce il pensiero politicamente scorretto

Ecco alcune riflessioni poco conosciute, certamente scomode per la vulgata che da anni tradisce il vero pensiero del magistrato ucciso da Cosa Nostra

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

La dipendenza del pubblico ministero dal governo? È un falso problema, «uno spauracchio». Una politica giudiziaria nazionale? È da auspicare. La separazione delle carriere? Deve passare «la faticosa consapevolezza che la regolamentazione della carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere più identica a quella dei magistrati giudicanti».

Come ogni anno, il 23 maggio l’Italia ha celebrato l’anniversario della morte di Giovanni Falcone, ma ne tradisce il pensiero. Un pensiero che scalfiva tabù ed è attuale come non mai: e dimostra come Falcone non fosse solo un eccellente investigatore, ma anche un cultore del diritto, amante dell’analisi comparata con altri sistemi, in primo luogo quello americano che aveva conosciuto direttamente per avere lavorato al fianco degli inquirenti degli Stati Uniti.

Quelle che seguono sono soltanto alcune riflessioni poco conosciute, certamente scomode per la vulgata che da anni tradisce il vero pensiero di Falcone. È disponibile quasi interamente in un volume ormai introvabile, Giovanni Falcone, Interventi e proposte, 1982-1992, edito da Sansoni con la Fondazione Falcone. Eccone alcuni passi, sui temi più politicamente scorretti. Considerateli un omaggio al magistrato ucciso.

Carriere. «Ho la faticosa consapevolezza che la regolamentazione della carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste: investigatore il pm, arbitro della controversia il giudice». Il tema, insomma, va affrontato senza paure, «accantonando lo spauracchio della dipendenza del pm dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, puntualmente sbandierati quando si parla di differenziazione delle carriere».

Controllo della magistratura. L’argomento ancora oggi divide. Falcone lo ha spesso affrontato, domandandosi «com’è possibile che in un regime liberaldemocratico non vi sia ancora una politica giudiziaria e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di Procura e spesso dei singoli sostituti», e aggiungendo che «in mancanza di controlli istituzionali sull’attività del pm saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e poteri occulti possano influenzare tale attività».

L’azione penale obbligatoria. Qui emerge la visione «anglosassone» del magistrato ucciso dalla mafia. Diceva Falcone: «Una giustizia efficace e democratica» significa anche «razionalizzare e coordinare l’attività del pm, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale, e dalla mancanza di efficaci controlli sulla sua attività». Negli Stati Uniti «se la giustizia è più rapida, efficiente e attenta ai diritti della difesa» dipende anche dallo «strumento fondamentale della non obbligatorietà dell’azione penale». E ancora: «Fino a quando in Italia vi saranno rigide normative sulla obbligatorietà, il problema della repressione giudiziaria del crimine organizzato non avrà fatto un passo avanti».

Correnti. Falcone aveva un rapporto tormentato con molti dei suoi colleghi. Questo era quello che diceva nei convegni ai quali partecipava: «Se l’autonomia della magistratura è in crisi, dipende anche dalla crisi che investe da tempo l’Anm, organismo diretto alla tutela di interessi corporativi», le cui «correnti si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm», e dalla «pretesa inconfessata di considerare il magistrato una sorta di superuomo infallibile ed incensurabile».

@mautortorella

Foto Ansa

 

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