«Irragionevoli elaborazioni su fatti mai verificatisi». Le motivazioni della condanna di de Magistris

Nel 20014 l'ex pm indagò Paolo Antonio Bruno, magistrato di Cassazione accusato ingiustamente di associazione mafiosa. Una vicenda kafkiana

C’è un che di storico nella sentenza su un caso di responsabilità civile di alcuni magistrati, che i giudici del tribunale di Salerno hanno pubblicato lo scorso 20 gennaio. In primo luogo si tratta dell’ultimo caso accertato di responsabilità di un magistrato in base alla vecchia legge Vassalli, visto che, appena un mese dopo, le regole del gioco sono cambiate con la nuova legge. Secondariamente, si tratta comunque di una sentenza di condanna a dei magistrati, per l’esattezza la sesta in ventisette anni (solo 34 casi su circa 400 ricorsi hanno superato infatti il filtro di ammissibilità previsto dalla vecchia norma Vassalli): dati i numeri così bassi, di per sé si tratterebbe di un fatto memorabile. In terzo luogo, c’è da valutare chi è la toga al centro della sentenza salernitana del 20 gennaio: secondo i giudici campani, lo Stato dovrà risarcire il consigliere di Cassazione Paolo Antonio Bruno per la «negligenza inescusabile» commessa dall’attuale sindaco di Napoli Luigi de Magistris, quando ancora era magistrato (negligenza commessa insieme all’ex procuratore capo di Catanzaro Mariano Lombardi, intanto deceduto, e al collega Mario Spagnuolo, oggi diventato capo della procura di Vibo Valentia). Vale dunque la pena ricostruire i fatti che stanno dietro questa condanna, con le parole usate dagli stessi giudici salernitani nella sentenza che tempi.it propone in esclusiva.

ACCUSA SENZA MOTIVAZIONI. Alle 5 di mattina dell’11 novembre del 2004, il giudice di Cassazione Paolo Antonio Bruno, originario di Reggio Calabria, a sorpresa subì una perquisizione in casa, su mandato della procura di Catanzaro firmato dall’allora pm Luigi de Magistris. L’atto di accusa, in gergo giuridico l’“incolpazione provvisoria” riportata sul mandato, era del tutto generica. Si capiva soltanto che Bruno era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, ma lui stesso, pur essendo giudice, non riusciva a comprendere di quali reati specifici si sarebbe macchiato, perché le formule usate erano piuttosto indeterminate. Bruno rimase sopraffatto emotivamente, ritenendosi vittima di un errore, ma al tempo stesso non poté opporre alcuna difesa. Nei successivi due anni, infatti, tutto cadde in uno strano limbo: né de Magistris né i suoi superiori convocarono Bruno per interrogarlo, malgrado a sua volta lo stesso Bruno, tramite i suoi avvocati, avesse richiesto numerose volte di essere ascoltato. Il giudice di Cassazione non ha mai potuto sapere neanche per quali presunti episodi era stato indagato.
Nel gennaio 2006, all’improvviso un nuovo colpo di scena: la procura di Catanzaro si accorse di non essere competente per indagare Bruno e rinviò il suo fascicolo ad altri colleghi. Fu così che, finalmente, l’8 novembre 2006, con un ritardo di due anni, Paolo Antonio Bruno fu interrogato per la prima volta. La sentenza del tribunale di Salerno, nel 2015, ha duramente criticato il comportamento della procura di Catanzaro, perché ha «formulato gravissime imputazioni (come appunto quella di concorso esterno in associazione mafiosa) prive di qualsivoglia elemento o supporto e omettendo qualsiasi pur minima motivazione», e anche perché ha «omesso di ascoltare l’imputato pur a fronte delle reiterate richieste».

LA “SUPERCUPOLA”. È stato solo nell’interrogatorio del novembre 2006 che, per la prima volta, Bruno ha compreso quali fossero le accuse mossegli. De Magistris nel 2004 aveva indagato una trentina di persone, tra cui alcuni politici di Reggio Calabria. Nella tesi al centro di quell’inchiesta, c’erano già tutti gli elementi che avrebbero poi reso famoso de Magistris per altre indagini e, in particolare, anche nel caso reggino, l’ipotesi accusatoria verteva su una presunta cupola mafioso-politico-giornalistica. Il consigliere Bruno non aveva a che fare direttamente con questa inchiesta: tuttavia secondo de Magistris egli aveva cercato di “aggiustare” il processo in Cassazione di uno dei politici coinvolti nell’indagine sulla cupola (un processo precedente all’inchiesta di de Magistris). Peccato però che, contrariamente all’ipotesi accusatoria, in realtà quel processo nel febbraio 2004 non si era chiuso a favore dell’imputato politico, ma con il rigetto del suo ricorso da parte della Cassazione. L’ipotesi accusatoria, inoltre, non prendeva nemmeno in considerazione il fatto che, all’epoca, Bruno non era nemmeno membro del collegio giudicante del processo al politico, e che addirittura non lavorava nella sezione penale della Cassazione che si occupava di questi casi. Bruno infatti lavorava in tutt’altro ufficio, il Massimario, cioè l’archivio delle sentenze della suprema corte.
Qual fosse “l’indizio” per cui de Magistris si fosse convinto che Bruno avesse “aggiustato” il processo al politico non è dato saperlo (tra l’altro, il Gup di Reggio Calabria, nel maggio 2009 ha assolto anche tutte le persone coinvolte nell’inchiesta sulla cupola reggina per insussistenza del fatto, cioè perché la presunta associazione criminale in realtà non era mai esistita). I giudici infatti hanno sottolineato che a carico di Bruno non vi era nulla. De Magistris & co. probabilmente hanno ipotizzato il presunto aggiustamento del processo in Cassazione sulla base di un episodio casuale.
La stessa mattina del processo al politico alla corte Suprema, Bruno aveva incontrato un vecchio amico con cui aveva preso un caffé al bar: l’amico si era poi recato ad assistere alla pubblica udienza del processo al politico, di cui in passato era stato un collaboratore. Un caffé al bar con un amico: questo infinitesimale “legame” tra queste vicende, un episodio che in sede processuale si è dimostrato del tutto innocente e casuale, nella mente dei procuratori di Catanzaro era diventata la ragione per sospettare di Bruno addirittura di concorso esterno.

“FATTO MAI VERIFICATOSI”. Su richiesta della stessa procura di Roma, il Giudice per l’udienza preliminare che si è occupato della vicenda di Paolo Antonio Bruno nell’agosto 2007 ha definitivamente prosciolto da ogni accusa il magistrato, scrivendo giudizi trancianti nei confronti dell’operato dei colleghi de Magistris-Lombardi-Spagnuolo. Tali giudizi sono stati ricostruiti e ripresi anche nella sentenza salernitana di condanna civile per l’operato dei tre, dove si legge: «L’imputazione a Bruno era del tutto priva di adeguato riscontro. Il Gup del tribunale di Roma ha prosciolto non già in forza di sopravvenienze investigative, ma sulla base di una mera presa d’atto (conforme alla requisitoria della stessa procura romana) che fin dall’inizio mancava nelle indagini qualsiasi elemento, sia pure di mero sospetto». Prosegue la sentenza civile di Salerno: «Inoltre il decreto di perquisizione (emesso pur a fronte di qualsiasi serio fondamento investigativo) si mostra del tutto privo di motivazione, essendo riportata esclusivamente la formula di mero stile, secondo cui si riteneva che in casa dell’imputato potessero essere rinvenute cose pertinenti al reato». E ancora: «Le indagini a carico del Bruno hanno avuto una durata assolutamente irragionevole, e sono state svolte in assenza di qualsiasi criterio di collegamento di competenza territoriale». Quella della Procura di Catanzaro fu «una irragionevole elaborazione di un fatto mai verificatosi».
Una vicenda kafkiana, insomma. I giudici civili di Salerno hanno ritenuto che Bruno abbia subìto «un danno non patrimoniale, sia in termini di pregiudizio biologico (sotto il profilo della lesione all’integrità psichica), sia in termini di pregiudizio morale, sia di pregiudizio esistenziale (almeno sotto il profilo della lesione all’immagine e alla reputazione)». Tuttavia, in base alla vecchia legge Vassalli, lo Stato era tenuto a risarcire per la responsabilità civile dei magistrati solo il danno patrimoniale (non è più così con la nuova legge). Ecco perché per gli errori inescusabili commessi da de Magistris-Lombardi-Spagnuolo, ora è stato ordinato comunque solo un risarcimento a Bruno di dodicimila euro (adeguati agli indici di rivalutazione Istat) per i danni e di altri diecimila euro per le spese legali. A pagare per gli errori dei tre magistrati sarà lo Stato, ovvero noi contribuenti.

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