Inseguendo quella misteriosa presenza nascosta nelle luci di Milano

Passeggiata quasi fotografica per le strade del capoluogo lombardo. Alla ricerca del padre perduto e dell'antica baldanza di una città che insieme al lavoro sembra aver perso il senso di sé

Un fulmine ha separato in due la mia vita, l’ha piegata come la svolta di un tornante. È stata la maledetta saetta che ha trapassato il corpo di mio padre, a pochi metri da terra, sganciato dalla terra. Era un operaio dell’azienda elettrica e stava riparando un lampione. Non ebbe riparo né scampo dalla luce che improvvisa piovve dal cielo. La scarica gli portò via il respiro prima ancora che il tuono arrivasse a sigillare l’attimo della fine.

Quell’istante ha abitato i miei sogni di bambino per lunghi anni. Immaginavo la folgore colpire la testa di mio padre e, da lì, percorrerne tutte le vene e tutti i nervi; incendiarli, illuminarli di uno sfrigolio bluastro. Mi figuravo il suo corpo mingherlino squassato da una furia trasformatrice, quasi una possessione divina, capace di rigenerarlo in una dimensione da supereroe. Questa immagine durava poco. Subito dopo la corrente assassina, come un predatore sazio, cominciava a ritirarsi verso un groviglio di cavi neri che pendevano dal cielo, contorti e agitati come i tentacoli di una piovra. La luce blu che lo aveva invaso andava a rintanarsi donde era venuta risucchiando nel buio la vita di chi mi aveva dato la vita. Il sogno terminava con me, sdraiato sull’asfalto, a fissare, inebetito, le ultime scintille di colui che era stato mio padre allontanarsi in ogni direzione lungo il reticolo elettrico per la guida dei tram.

Da quel giorno ho sempre vissuto con la convinzione che mio padre non fosse davvero morto ma che continuasse a vivere in una forma diversa, come semplice flusso di elettroni, dentro gli infiniti chilometri di rame ritorto che innervano la città. Lui è lì che si sposta da un capo all’altro di Milano per continuare a sostenere e proteggere la mia vita: scende nei binari della metropolitana per accompagnarmi al lavoro, risale nei piani alti del palazzo dove ho l’ufficio, mi insegue lungo la teoria dei lampioni che illuminano gli alberi della via di casa.

Non sono pazzo, so che tutto questo è solo una fantasia, ma mi piace pensarlo. L’amore con il quale mi ha circondato non può essere finito nel nulla; in qualche modo, da qualche parte quel bene deve continuare a esistere, deve continuare a produrre frutto nel mio presente; deve, necessariamente, rischiarare la pesantezza di giornate come questa dove tutto sembra buio.

Quando, come in questa serata, il futuro mi appare tetro e tocco con mano il fallimento di tutto quello che ho toccato io esco per strada e cerco mio padre, anche tutta la notte, se serve. Attraverso i parchi, le piazze e i colonnati nella speranza di trovare un segno della sua presenza; mi siedo sulle panchine e sulle gradinate in attesa che si riveli; scruto ogni luce per scorgerne il segnale.

Attendo il tremolio di una lampadina oppure lo spegnersi e il riaccendersi improvviso di un faro. Aspetto che le luci di Milano mi facciano capire che lui è lì, adesso, che mi guarda benevolo, magari dall’alto della calotta di un lampione dove si è infilato per seguire i miei passi.

Questa mia convinzione ha avuto conferma una sera di alcuni anni fa. Stavo camminando assorto nei miei pensieri e ho attraversato i binari della tramvia senza troppa attenzione. Lo stridore di una frenata improvvisa mi riportò d’improvviso alla realtà paralizzandomi nello spavento a fissare il monocolo acceso della vettura che stava per investirmi. Non riuscivo a muovermi e mi preparai al colpo. La carrozza, invece, si fermò a pochi centimetri da me sprizzando scintille dalle ganasce dei freni e sussultando sugli ammortizzatori. Una volta riassestato il peso il fanale anteriore si accese e si spense un paio di volte come per un difetto dei contatti.

Ebbi subito la sensazione che una forza misteriosa avesse evitato l’incidente e quel fanale incerto mi parve come l’occhiolino ammiccante di chi mi aveva salvato la vita. Una voce interiore mi disse: «Questa volta ti è andata bene; la prossima, però, stai più attento». Riconobbi il suono della voce di mio padre.

Oggi la mia esistenza è schiacciata dall’angoscia di un lavoro che faccio sempre più fatica a trovare e che, mancando, rischia di portare al fallimento la mia piccola azienda. Il tornante ha terminato la sua conversione e mi ha riportato al punto della frattura. Il lavoro ha ucciso mio padre, la mancanza di lavoro sta uccidendo me. Dentro questo orizzonte ogni luce pare spegnersi. Milano pare spegnersi.

In momenti come questo non riesco a non pensare al tempo in cui ogni cosa sembrava destinata alla pienezza e il petto si spalancava a qualsiasi tutto. Come siamo arrivati fin qui? Cosa o chi ha tradito quelle promesse? Dove ci siamo persi?

Che fine ha fatto la baldanza di quei ragazzi che si raccoglievano di sera sotto l’Arco della Pace durante le mie estati di ragazzino? Facce pulite che guardavano al mondo come a una sfida. Si arrampicavano sui lampioni con la stessa strafottenza con quale si apprestavano a scalare l’esistenza. Niente pareva impossibile, tutto era raggiungibile se solo si fosse voluto, se solo si avesse avuto il coraggio di combattere per averlo. I loro figli, adesso, lottano per tirare mattina e sanno solo lasciare bottiglie rotte e schizzi di vomito fuori dai locali del divertimento senza senso; sanno solo languire in un presente sterilizzato di ogni attesa.

Sarà ancora accesa la luce dei due innamorati del Castello? Li vedevo occupare sempre la solita panchina, stretti l’uno all’altra, tutti intenti a costruire la loro piccola storia davanti all’imponenza di secoli di storia. Se ne stavano lì, tutte le sere, a progettare un futuro conosciuto soltanto ai loro sogni parlandosi fitto a pochi centimetri. Avranno visto quel progetto compiersi? Avranno resistito o la loro famiglia sarà ormai spaccata e frantumata dai dolori e dalle difficoltà?

Quando avverto che i miei pensieri stanno prendendo la china della nostalgia disperata e la mia mente si avvita in una prospettiva sempre più asfittica conosco solo un modo per liberarmi e uscire dal vortice: orientare la mia passeggiata serale verso il Duomo. Solo in quel luogo riesco a ritrovare lucidità. Vado fino in fondo alla piazza e poi la risalgo lentamente senza mai staccare lo sguardo dalla facciata. Contemplare quella bellezza e quella grandezza luminosa ha il potere di guarirmi l’anima. La mia non è solo un’emozione estetica, tutt’altro. Ogni volta che faccio questo percorso riporto alla memoria le parole che mio padre pronunciò la prima volta che mi ci portò.

In centro con il papà
Noi si viveva in periferia e in centro non si andava mai. Una domenica, poche settimane prima dell’incidente, mio padre pensò che fosse giunto il momento di aggiungere un tassello alla mia educazione e decise di portarmi a visitare il Duomo. Entrammo nella piazza da via dei Mercanti. Anche per lui si trattava di un’esperienza rara e, sarà stato forse per la luce pulita di quella mattina, rimase colpito dalla chiara imponenza della cattedrale. Si arrestò estatico e disse quasi a se stesso: «Quant laurà che gh’è denter!».

Sul momento non detti peso a quelle parole. Diventato grande mi fecero invece sorridere al ricordo della ingenua ignoranza di mio padre. Lui non riusciva a vedere l’Arte, la Storia, vedeva solo il lavoro, che era l’unica cosa che conosceva bene, e usava quello per misurare tutte le cose che incontrava. Le ore di lavoro erano per lui il valore del Duomo, o meglio, le ore di lavoro erano l’indice del valore che doveva avere quella costruzione.

Ora che sono adulto non rido più di quelle parole; al contrario le considero uno degli insegnamenti più importanti di mio padre. Il lavoro è l’unica cosa che un uomo può dare a sé, alla sua famiglia, alla sua città; è l’unica sua vera proprietà. Migliaia di persone, nei secoli, hanno impiegato il proprio lavoro al servizio della bellezza ed ora il frutto di questo sacrificio sta davanti agli occhi di tutti a confortarli, a rincuorarli a indicare la strada con la sua sconfinata meraviglia.

Questo è quello che penso quando guardo la facciata illuminata del Duomo. Questa è l’unica cosa che riesce a far rinascere la speranza nel fango delle mie paure e delle mie incertezze. Nella luce che accarezza il marmo vedo la luce di mio padre, la luce di Milano, la luce di tutti noi.

Anche questa sera, con fatica, ho ritrovato la mia strada camminando tra le luci della città. L’unico rimpianto che ho è di non aver incontrato nessun segno della presenza di mio padre. Nessun faro mi ha occhieggiato, nessuna luce mi ha salutato amorosa; ma non importa, la mia è solo una fantasia e il cuore si è comunque riempito e rimesso in moto.

Mi risolvo a imboccare la strada di casa. Salgo i pochi gradini che portano al mio appartamento e apro piano la porta per non svegliare la moglie e i figli che già dormono. A memoria cerco l’interruttore della luce dell’ingresso e lo pigio. Nel buio vedo l’azzurro dell’arco voltaico che si forma nella scatola. Quasi nel medesimo istante sento il colpo secco del salvavita che scatta: “Buonanotte papà”.

@MolonFranco

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