L’inchiesta su Open e la nebbia della trasparenza

L'inchiesta sulla Fondazione di Renzi non ci convince. Il vero problema è che le battaglie anticasta ci hanno portato in una zona grigia

Che Luigi Di Maio, uno che è capo politico di un “non partito” eterodiretto da una srl, faccia la predica a Matteo Renzi sui finanziamenti opachi alla politica, fa abbastanza ridere. La linea di questo giornale in materia di inchieste sparacchiate sui giornali, lo sapete, non è garantista solo perché è “iper-garantista” e, dunque, anche il caso del Royal baby non sfugge alla regola.

L’inchiesta puzza lontano un miglio

Per farla breve, a riguardo dell’inchiesta su Open, la fondazione vicina a Renzi ora al centro di un’indagine della magistratura per presunti finanziamenti illeciti, abbiamo le stesse perplessità espresse sul Giornale da Alessandro Sallusti:

«Non solo perché garantisti, non tanto perché non abbiamo letto tutte le carte, ma questa storia puzza lontano un miglio, quanto meno per il dispiegamento di forze, il clamore mediatico e il tempismo. Che i privati finanzino un politico o un partito fino a prova contraria è un fatto legale, che tra queste operazioni ce ne sia stata qualcuna irregolare (e quindi perseguibile per legge) è cosa probabile. Ma altro è volere far passare un movimento politico nei confronti del quale non abbiamo mai avuto simpatie per un’organizzazione criminale».

Il finanziamento pubblico ai partiti

Questa è una storia vecchia che ciclicamente si ripete in Italia. D’altronde, come si dice con espressione un po’ logora, “la politica costa” e l’attuale situazione è anche figlia degli errori stessi della politica. Tra il 2013 e il 2017, il Pd ha fatto un buco di 19 milioni di euro, Forza Italia di 30 e la Lega di 28. Poiché cinque anni fa (governo Letta), sulla scia della lotta anticasta, è stato abolito il finanziamento pubblico ai partiti e introdotta la panacea del 2×1000, come altro possono fare i politici a pagare sedi, addetti, campagne elettorali? Dopo aver licenziato gran parte dei propri dipendenti e raschiato il fondo del barile, i partiti hanno cercato fondi tra i privati.

Chi è così pazzo?

Era inevitabile e qui è il problema. Poiché sono state approvate leggi che puniscono il cosiddetto “traffico d’influenze” e con la spazzacorrotti è stato determinato che solo le donazioni sotto i 500 euro possono essere anonime, si è giunti ad un paradosso che Francesco Cundari su Linkiesta ben sintetizza così:

«Il risultato è un sistema in cui i partiti sono costretti a rivolgersi ai privati per finanziarsi, ma al tempo stesso ogni forma di finanziamento da parte dei privati è tacciabile di corruzione. In pratica, il quadro normativo presuppone che un privato possa finanziare un partito a condizione di non ricevere mai e poi mai, né direttamente né indirettamente, il più piccolo beneficio – per non parlare di appalti, commesse, permessi – da alcun esponente del suddetto partito. Dunque, si chiederanno a questo punto i miei piccoli lettori: perché mai dovrebbero farlo? Perché mai un’azienda dovrebbe buttare dei soldi per finanziare un partito, al solo scopo di garantirsi contro l’eventualità che da quel partito possa mai venirle il minimo aiuto? Chi è così pazzo da investire i suoi soldi in una simile anti-assicurazione?».

Ladri, ladri

Ci siamo intesi, no? Non c’è bisogno di essere più espliciti. Siamo nel classico labirinto senza uscita cui ci hanno portato le campagna moralizzatrici dei cinquestelle e di tutti quelli (Renzi incluso) che hanno lucrato consenso politico al grido “ladri, ladri”. A questo ci ha portato il mito della trasparenza: alla nebbia più fitta. Si è creata un’inevitabile zona grigia da cui non si può uscire a meno di ristabilire il finanziamento pubblico. Il rischio è che qualcuno costituisca società di diritto privato che, fuori dal controllo democratico, controllino la politica. Dicono che qualcuno ci abbia già pensato da tempo.

Foto Ansa

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