Il tragico equivoco che non ci difende da nessun abuso

Basta aggirarsi nei siti più seguiti, constatare la teorizzazione continua della fatuità del piacere, che però è considerato l’unico bene eterno, con la rincorsa spasmodica dell’attimo fuggente. L’altro/a? Non esiste.

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Propongo uno spin-off, come si dice a proposito dei telefilm, sul caso Weinstein-Argento. C’è di mezzo – comunque la si rigiri – il rapporto tra sesso e potere. Siamo tutti d’accordo sul fatto che l’abuso si configura come violenza sulla persona: il potere sull’altro è esercitato contro la sua libertà. Un delitto gravissimo comunque siano le gradazioni della violenza: aggressione fisica o coercizione della volontà. L’altro/a da mistero è ridotto a non-persona, a cosa. Ma se fosse una cosa, un semplice agglomerato di molecole disposte in modo gradevole, non sarebbe interessante possederlo. La pulsione di violenza desidera realizzare il dominio sull’altro non solo in quanto corpo, vuole l’anima; e se non ci fosse una libertà da piegare o negare sarebbe un delitto imperfetto. Il godimento è secondario, è la giustificazione effimera di questo possesso con cui si crede di diventare onnipotenti. Una schifezza orribile e mentitrice.

Quello che qui vorrei sommessamente dire è che la cultura dominante ospita in sé un equivoco tragico. Essa (per fortuna) condanna l’abuso sessuale come delitto abominevole contro la persona, non più come crimine contro la morale sociale. Dunque considera la sfera sessuale come relazione con l’altro, un bene grande e intimo, non un’appendice del nostro essere, ma componente della sua essenza. San Giovanni Paolo II ha dedicato parti poderose e geniali del suo magistero (anche poetico) a questa verità antropologica. Non aveva l’ossessione della morale sessuale – come qualche cretino anche in tonaca continua a sostenere –, ma della verità e della libertà di ciascuna persona. Ora però la stessa cultura dominante che giudica lo stupro non lacerazione di un tessuto etico astratto, ma ferita inaudita di una donna o di un bambino/a, proclama un altro principio, l’opposto. Basta aggirarsi nei siti più seguiti, constatare la teorizzazione continua della fatuità del piacere, che però è considerato l’unico bene eterno, con la rincorsa spasmodica dell’attimo fuggente. L’altro/a? Non esiste.

Ricordo un articolo antico di Umberto Galimberti, filosofo e psicanalista elevato a maître à penser da decenni, il quale sull’Espresso spiegava che “il sesso non è rapporto con l’altro, ma rapporto dell’io con la sua follia”. La citazione è quella che mi restituisce la memoria, perciò imprecisa, ma il senso era quello. Se è così, addio rispetto. E il confine tra pratica lecita e abusi diventa – tranne i casi di brutalità conclamata – una linea convenzionale, in fondo una morale di convenienza.

Foto Ansa

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