Il suicidio del ragazzo dai pantaloni rosa «non era omofobia». Se ne accorge anche Repubblica (in un box a pagina 20)

La procura di Roma chiede l'archiviazione per tutti: Andrea non si tolse la vita per gli insulti dei compagni. Un'altra campagna mediatica si sgonfia lasciandosi alle spalle una tragedia strumentalizzata

Oggi, venerdì 14 febbraio 2014, oltre un anno dopo i fatti, il quotidiano la Repubblica si accorge che con ogni probabilità «la morte del liceale con i pantaloni rosa non fu omofobia». Di più: «Non era un caso di omofobia e nemmeno di bullismo». La procura di Roma ha infatti ufficialmente «chiesto l’archiviazione del procedimento» in merito al tragico suicidio di Andrea Spaccacandela, e Repubblica ne prende atto in un boxino a pagina 20 (vedi immagine a destra).

UNA BANDIERA. Spaccandela, alunno del liceo Cavour della capitale, si tolse la vita impiccandosi in casa il 20 novembre 2012 e i media lo trasformarono immediatamente in un simbolo dell'”emergenza omofobia”, aggrappandosi superficialmente al suo curioso piacere di indossare appunto i pantaloni rosa. Il cadavere del povero 15enne fu trascinato in mille iniziative politico-mediatiche contro il bullismo e l’omofobia anche per via di un profilo Facebook pieno di insulti che però – si scoprì successivamente – era stato creato per scherzo dagli amici di Andrea in collaborazione con lui. Repubblica aggiunge adesso, non senza rinunciare a qualche superficialità, che l’ipotesi rimasta in piedi a questo punto è «una delusione d’amore per una sua compagna di scuola».

LA RIVOLTA DEGLI AMICI. La verità è che probabilmente non sapremo mai il vero motivo per cui quel ragazzo si è ucciso. L’unica certezza è che nessuno avrebbe dovuto sentirsi autorizzato a sventolarlo come una bandierina. Tanto meno alla luce del fatto che già nel 2012, pochi giorni dopo il suicidio, i suoi compagni si ribellarono alla campagna stampa attraverso due lettere molto istruttive, nella quali per altro, oltre a respingere ogni accusa di omofobia, tentarono di spiegare ai giornali che Spaccacandela «non era omosessuale». Tutto inutile, la campagna proseguì. Sebbene fin da subito fosse abbastanza chiaro – anche agli stessi inquirenti – che i liceali del Cavour avevano ragione.

COLPA DEGLI ALTRI. Ora comunque i magistrati hanno ufficialmente «sgombrato le ipotesi sul movente omofobico del suicidio» e Repubblica è costretta a scrivere che in effetti «Spaccacandela non era omosessuale» e «non è mai stato fatto oggetto di scherno o persecuzione da parte dei suoi compagni», né di conseguenza gli insegnanti del ragazzo sono imputabili di omessa vigilanza. Nell’articolo di cronaca apparso sul sito del quotidiano si ricorda inoltre che a gridare all’omofobia furono all’epoca «il Gay Center», per il quale «si trattò di una storia di disagio: “Il ragazzo veniva deriso su Facebook e additato come gay”», e «la mamma Teresa», la quale proprio «in un’intervista a Repubblica» lanciò a propria volta «pesanti accuse» e «parlò di atteggiamenti di scherno e di bullismo subìti dal ragazzo a scuola, di cui lei venne a sapere solo dopo la morte».

LA CAMPAGNA. Tutto vero. Ma furbescamente Repubblica si scorda di ricordare anche chi ha continuato fin ad oggi a utilizzare “il ragazzo con i pantaloni rosa” come un vessillo arcobaleno. Cioè la stessa Repubblica. Solo per fermarsi ai primi risultati di una rapida ricerca online, si trovano: un’altra intervista anti-omofobia sempre a «mamma Teresa», questa volta invitata nello studio di Repubblica tv; una intervista a Tiziano Spaccandela, padre di Andrea, ambiguamente intitolata contro «l’isolamento» del ragazzo in una scuola che «non sa fermare i prepotenti»; un mucchietto di editoriali tipo “Omofobia, Roma fermi la strage”; fotogallery tipo “Anche Bari indossa pantaloni rosa” e altre numerose citazioni in articoli di denuncia della suddetta “emergenza”. Rimettere in fila queste cose alla luce della novità non serve naturalmente a cantare vittoria perché “noi l’avevamo detto”. Il suicidio di un ragazzo non può risultare in una vittoria per nessuno. A maggior ragione, però, una tragedia come questa, qualunque sia il vero movente, non dovrebbe mai suscitare conclusioni intellettualmente pigre e slogan strumentali. Servono piuttosto domande vere.

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