Il Boss racconta il suo nuovo disco, «Spoon River dei dimenticati dal sogno americano»

Il «patriota del tipo arrabbiato» Bruce Springsteen racconta le canzoni del suo nuovo album "Wrecking ball", che uscirà il 6 marzo. «Una Spoon River dei dimenticati dal sogno americano, della distanza sempre più grande tra promessa e realtà. Racconto con rabbia l’America dei tempi duri, della Depressione, dei ricchi furfanti».

Verrebbe da dire che ogni nazione ha il rocker che si merita. Mentre l’ultra settantenne Celentano farnetica dal palco del Festival di Sanremo, tra sermoni e frasi sconclusionate, il sessantaduenne Bruce Springsteen, molto più compostamente, in occasione della presentazione del suo nuovo lavoro, in uscita il 6 marzo, “Wrecking Ball”, ha raccontato come le sue canzoni siano l’espressione del suo sentimento quotidiano: quello di un americano che soffre per le contraddizioni e la fatica della sua terra e della sua gente. Senza lanciare anatemi, con tratti di “sano realismo”: una lezione, anche per i Celentano americani come i Penn, i Moore, gli Stone, radical chic, “crociati delle cause perse” (come scrive Massimo Gaggi sul Corriere della Sera). Ripercorriamo alcuni passaggi significativi della conferenza stampa che il Boss ha tenuto a Parigi, davanti a una delegazione di giornalisti, unendo le diverse sfumature colte dagli inviati di Corriere, Repubblica e Stampa.

“Wrecking ball” è la palla di metallo che demolisce i vecchi fabbricati, è quella che ha distrutto il vecchio stadio, nel New Jersey, della squadra di football dei New York Giants. Simboleggia la violenza che subiamo nella vita: «Misurare la distanza tra il sogno americano e la realtà delle cose, quello che faccio da sempre – dice Bruce – è il mio lavoro dalla fine dei ’70, da “Nebraska” a “Tom Joad”. Direi che gli ultimi trent’anni hanno distrutto con la violenza e l’implacabilità di una sfera di acciaio tutti i valori americani, la compassione e la condivisione che sono alla base di ogni società». Continua Springsteen: «Il disco si apre con una serie di domande, formulate come affermazioni: ci prendiamo cura del nostro prossimo, del nostro vicino, di chi è in difficoltà?».

Raccontando il suo ultimo disco, il Boss dice di far «parlare i morti, vicini nel cimitero, ma appartenenti a epoche diverse della storia del mio Paese, dalla Guerra Civile ai nostri giorni. Una Spoon River dei dimenticati dal sogno americano, della distanza sempre più grande tra promessa e realtà. Racconto con rabbia l’America dei tempi duri, della Depressione, dei ricchi furfanti, dei banchieri che vivono sulla collina. Il senso è che tutto è ciclico e che la sopraffazione, la violenza, il furto, la negazione dell’umanità si ripresentano sempre nella Storia». Io, continua, «ho lavorato per un anno e mezzo a un disco che poi ho gettato via. Era arrivata la crisi, avevo amici costretti ad abbandonare la casa dove vivevano, e intanto nessun colpevole finiva in galera: non potevo occuparmi d’altro in un momento come quello. Cosa sta succedendo, mi chiedevo, che cosa era questa enorme spaccatura che stava apprendo una voragine nel sogno americano? Il lavoro dà identità e dignità alle persone, è ciò che permette di avere rispetto di sé stessi. L’aumento della disoccupazione mi sembrava una tragedia nazionale gigantesca e trascurata. Ricordo le umiliazioni subìte da mio padre quando non riusciva a trovare lavoro, costretto a dipendere da mia madre. Ricordo la sua rabbia, la sua autostima in frantumi. È il mio imprinting. Per questo capisco la destra dei tea party: l’economia che passa dal manifatturiero ai servizi si lascia indietro tanta gente, che sa solo lavorare con le mani. Non possiamo ignorarli, sono nostri fratelli».

Bruce si definisce «un patriota del tipo arrabbiato», che per tutta l’infanzia ha “subìto” «il lavaggio del cervello, e lo dico sorridendo, dall’educazione cattolica. Preti e suore, odore d’incenso ovunque, ma è qualcosa che mi è rimasto. Quando cresci cattolico lo resti per tutta la vita». Poi racconta della morte dei suoi amici, ricorda Clarence Clemons, deceduto il giugno scorso: «Con lui avevo un rapporto viscerale. Lo conobbi quarant’anni fa quando io ne avevo 22, l’età di mio figlio oggi. Senza Clarence è come se non ci fosse più la pioggia, se non ci fosse più l’aria. Come se non ci fosse più una parte della mia vita».

Non sfugge neanche alle domande sull’attualità politica: «Continuo a sostenere Obama, ma stavolta resto in panchina. Certo mi aspettavo di più, su alcuni punti, come l’aiuto alla creazione di posti di lavoro, poteva fare di più; ha salvato la General Motors, ha passato una legge sulla sanità che, non sarà perfetta, ma aiuta tanta gente a non essere schiacciata dalla malattia. Ha ucciso Bin Laden. Certo, pensavo che fosse meno amico delle grandi aziende e di Wall Street, che tenesse tra i suoi consiglieri più persone che si preoccupassero della classe media. Pensavo che avrebbe chiuso Guantanamo. Prima di Occupy Wall Street non c’era nulla: io credo che possa cambiare il dialogo nel nostro Paese. Siamo stati bloccati per anni. Soprattutto da almeno due decenni nessuno parlava più di uguaglianza economica: ora se ne parla e già questo cambia la prospettiva».

E poi un finale, nel quale il rocker si esprime in tutto il suo realismo, per niente invasato, né profeta della masse: «Dove andremo, che cosa accadrà non lo so, ma d’altra parte non potete chiedere risposte a quelli che fanno musica. Noi, al massimo, siamo i canarini nella miniera». Thank you, Bruce.

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