Il “Berlusconi d’America” rovinato dalla giustizia. «Questa è la dittatura dei procuratori»

Aveva il terzo impero mediatico mondiale, poi la magistratura l'ha rovinato. Intervista esclusiva a Conrad Black, che parla a Tempi dopo otto anni di immeritata pena

Da Toronto. Conrad Black non ha l’aria di un uomo che s’accontenta di godersi in silenzio il bottino della propria vendetta. Non è sfuggito a un calvario giudiziario di otto anni per starsene in pantofole nella sua magione di Toronto a leggere i discorsi di Machiavelli che occhieggiano sul tavolino da caffè. Negli occhi di quello che una volta era il titolare del terzo impero mediatico del mondo brilla il disprezzo per la vita tranquilla, la voglia di un nuovo inizio. Il 4 maggio del 2012 è uscito da una prigione di Miami, le guardie lo hanno scortato all’aeroporto e lo hanno sorvegliato finché il suo aereo non si è staccato da terra alla volta del Canada, la sua Heimat. Quella è stata l’ultima volta che ha toccato il suolo degli Stati Uniti, il paese che ha amato profondamente, che ha osservato con trasporto nella sua attività di storico ma che gli ha mozzato le mani con foga persecutoria quando ha tentato di fare affari nella “land of the free”. Da quel paese è stato bandito per trent’anni, un mandato pressoché definitivo per un uomo di sessantotto.

Nella sua galassia mediatica, la Hollinger International, c’erano il Daily Telegraph, il Sidney Morning Herald, il Jerusalem Post, il canadese National Post e infine il Chicago Sun-Times, quotidiano di «quella tetra città», come la chiamava Saul Bellow, che è stata per lui palcoscenico e patibolo. A Chicago è iniziata la fine di Conrad Black, Barone di Crossharbour, membro della Camera dei Lord, figlio di una famiglia aristocratica di Montreal, “public servant” sopra ogni cosa, come recita il suo profilo Twitter, storico, scrittore, capitalista, biografo di presidenti americani, uomo di mondo, ex membro del direttivo del Club Bilderberg, tiepido protestante convertito cattolico nel rapporto con il cardinale Gerald Carter, titolare di una lingua inglese ormai perduta, amico di Margaret Thatcher e Gianni Agnelli, intimo di Henry Kissinger e fierissimo avversario di Rupert Murdoch. Il travaglio è cominciato con una congiura all’interno del board aziendale, una faida di potere che si è trasferita nelle aule di una procura guidata dal più forcaiolo dei magistrati americani, Patrick Fitzgerald, quello che ha trascinato sulla graticola il capo di gabinetto di Dick Cheney, Scooter Libby, per il caso dell’agente Valerie Plame, sapendo benissimo che la fonte che per vendetta aveva spifferato ai giornali il nome dell’agente della Cia sotto copertura era un’altra. Ad alimentare la sete di condanne di Fitzgerald c’era il commissario speciale nominato per il caso, Richard Breeden, ex capo della Sec (l’autorità che controlla la borsa). Nel suo libro A Matter of Principle, Black descrive così il primo incontro con Breeden: «Non mi ricordava altro che un funzionario provinciale di Beria, con la freddezza senza sangue propria di chi detiene un potere che eccede di molto la sua intelligenza. Non ero ottimista sul fatto che le apparenze ingannassero». In un clima giudiziario reso incandescente dallo scandalo Enron, i procuratori di tutta America sembravano baccanti invasate alla ricerca di un altro ricco da appendere a testa in giù, un altro trionfo della giustizia sulla corruzione. Black era il candidato perfetto per l’ennesima punizione esemplare. L’accusa di frode era quasi ovvia per un tycoon che spostava centinaia di milioni di dollari e Black è stato sottoposto a un iter giudiziario ormai codificato: il processo mediatico, la riduzione allo status di impresentabile, il blocco dei beni, la moralizzazione pubblica, le pressioni su amici e parenti per indurre testimonianze spontanee che guarda caso confermavano i teoremi dell’accusa. Frode, appropriazione indebita, ostruzione della giustizia; diciassette imputazioni e una condanna a 6 anni e mezzo di prigione e al pagamento di 6,1 milioni di dollari alla sua ormai ex azienda. Di anni in carcere ne ha passati più di tre, mentre le corti d’appello, questa volta nel silenzio mediatico, smontavano pezzo per pezzo l’impianto accusatorio. Gli ultimi quattro capi d’imputazione sono stati liquidati dalla Corte suprema, che ha strappato dalla prassi legale un cavillo, introdotto negli anni Ottanta, a tal punto vago che i procuratori alle costole dei colletti bianchi vi si aggrappavano a priori. Trovare un giudice corrivo non era mai un problema.

Seduto nel suo studio, Black parla a briglia sciolta: i magistrati, il ritorno sulla scena, la fede, la rinuncia del Papa, il carcere, il declino americano, il talk show che presto condurrà per la tv canadese, gli amici e gli avversari. Spiega che il gusto della sua vittoria è bilanciato dal disgusto per un sistema giudiziario gravemente malato. La chiama “prosecutocracy”, la dittatura dei procuratori, ed è una misera consolazione per lui sapere che la tendenza non è soltanto americana.

Almeno l’onore è stato vendicato?
Qui in Canada, quando si è capito che le accuse contro di me erano montate ad arte, la gente ha iniziato a stare dalla mia parte. Negli Stati Uniti quelli che seguono il caso tendono a dire che i magistrati hanno perso. Strano perché di solito l’accusa vince sempre.

Non le dico cosa succede in Italia…
Almeno quella ragazza di Seattle è stata dichiarata innocente, negli Stati Uniti nessuno viene scagionato. Guardi cos’hanno fatto a New York con Dominique Strauss-Kahn: un giudice americano ha condannato i francesi a essere governati da Hollande. Una disgrazia.

Perché è impossibile mettere un limite alla “prosecutocracy”?
Gli Stati Uniti hanno avuto una tradizione nella riabilitazione dei detenuti e nella riforma del sistema carcerario che è durata fino agli anni Sessanta, quando sono successe due cose: la sommossa dei neri a San Quentin, che ha generato la paura che ogni riforma, ogni apertura potesse essere dirottata e sfruttata dalle organizzazioni degli estremisti afroamericani. Poi il movimento femminista è riuscito a far passare l’idea che le pene per gli stupratori fossero troppo leggere. Così la giustizia è diventata una questione politica.

Di una fazione in particolare?
Destra e sinistra, senza distinzioni. Nelson Rockefeller, il governatore di New York, era un conservatore moderato, un liberale, ma si è trovato con migliaia di detenuti ad Attica che avevano occupato la prigione e avevano preso ostaggi fra i secondini, ed è stato costretto a usare la forza. Bobby Kennedy non è stato più leggero di Nixon e Reagan. Nessuno, né a destra né a sinistra, si è fermato e ha detto: “Ehi, questa tendenza può portare a commettere un sacco di ingiustizie”. E chi ci ha provato è stato accusato di essere un complice dei criminali.

Com’è possibile che i politici americani non si mettano d’accordo su nulla ma su questo si sia trovato il compromesso perfetto?
Hanno creato un sistema. Dopo la National Rifle Association, la più efficace lobby degli Stati Uniti è la National Correctional Employees Union, il sindacato delle guardie carcerarie. Sono lavoratori non qualificati, non hanno le competenze per fare altri lavori nel carcere se non andare avanti e indietro con un mazzo di chiavi in mano. Sono fortemente sindacalizzati proprio perché hanno paura di perdere il posto. Sono tanti e molto attivi. Intervengono nel processo politico con cospicue donazioni e fanno pressione su altri sindacati per unirsi alle loro battaglie. A questo va unita la privatizzazione delle carceri. Costruire nuove prigioni è una politica popolare, ma fare debito non lo è affatto, allora gli stati fanno accordi con i privati: voi costruite le prigioni, noi garantiamo che almeno il 95 per cento dei posti sia occupato. Così gli enti locali evitano di fare altro debito, ma il risultato finisce per essere immensamente più costoso per i cittadini.

Come si garantisce un certo numero di condanne?
Gli azionisti delle prigioni fanno una pressione pazzesca sui loro rappresentanti a Washington per avere condanne più lunghe, per criminalizzare qualunque attività, per spronare magistrati e poliziotti a perseguire i criminali con maggiore zelo. Il risultato è che la popolazione degli Stati Uniti è il 5 per cento di quella mondiale e la popolazione carceraria rappresenta il 25 per cento di quella mondiale. E il 50 per cento degli avvocati del mondo è negli Stati Uniti. La professione legale in America è un cartello enorme che muove il 10 per cento del Pil. È uno scandalo.

Questa dinamica non è la negazione perfetta delle libertà individuali che sono alla base degli Stati Uniti?
Qui si arriva a un’altra questione: il fallimento dei media. Un disastro clamoroso, scioccante. Due componenti fondamentali di una democrazia avanzata sono l’indipendenza del potere giudiziario e la libertà di stampa. Ma il sistema legale è oppressivo e la magistratura alimenta questo meccanismo corrotto. I media hanno fallito, perché non sono in grado o non vogliono raccontare questo scandalo. Ci sono decine di storie di procuratori che inquinano le prove, che fanno inchieste a tesi, ma i magistrati sono sempre immuni. Non importa cosa fanno. E l’opinione pubblica è accondiscendente. C’è una contraddizione in America: ambiziosi, ottimisti e tenaci come sono, gli americani hanno anche un’altra faccia stranamente condiscendente, corriva. Sono grandi lavoratori rispetto agli europei, ma non hanno la minima idea di quanto sia marcio il loro paese e vivono nel mito del faro della libertà che illumina tutte le nazioni.

Com’è che dalla lotta al crimine comune si è passati alla caccia ai colletti bianchi?
A un certo punto l’approccio “law and order” è andato totalmente fuori controllo. Non ha alcun senso mandare le persone non violente in prigione. Se hanno commesso crimini, dalla frode alla corruzione, devono essere accusati, condannati e puniti, ma cosa credono di ottenere mandandoli in prigione? Sono stato in prigione, dovrebbe vedere che razza di ridicola e mostruosa perdita di tempo. Capisco che chi rappresenta un pericolo per la società deve essere rinchiuso, la gente va protetta, ma qui siamo alla follia.

E qualcuno viene riabilitato in carcere?
Il carcere è diventato uno sgabuzzino. Trentacinque anni fa negli Stati Uniti c’erano 750 mila persone nei manicomi e negli ospedali psichiatrici. Ora ce ne sono 50 mila. Non è perché la situazione mentale degli americani è migliorata, ma perché li hanno messi tutti in prigione.

Lei ha detto che in America i magistrati di fatto estorcono confessioni di reati mai commessi.
Il patteggiamento è semplicemente l’estorsione di una confessione falsa in cambio di una riduzione della pena o dell’immunità. Quando entri nel mirino di una procura, vanno dalle dieci persone che ti conoscono meglio e dicono: “Sono sicuro che si ricorda benissimo che il signor x faceva y”. Gli amici e i parenti dicono che no, non si ricordano affatto, che lui è una persona onesta. A quel punto dicono che sarà meglio che si facciano tornare la memoria in fretta, altrimenti potrebbero essere accusati anche loro di cospirare con il colpevole. E tutti cedono.

Anche nel suo caso hanno ceduto?
Certo. La presidentessa del Moma, Marie-Josée Kravis, che conosco da tanti anni, l’ex governatore dell’Illinois e Richard Burt, ex ambasciatore degli Stati Uniti a Berlino e negoziatore per la riduzione degli arsenali, hanno testimoniato contro di me. Sapevano che stavano dicendo cose non vere, i giurati hanno detto che non credevano a una sola delle loro parole, erano tutte balle, ma gli avevano garantito l’immunità dall’accusa di falsa testimonianza e hanno detto quello che avevano detto loro di dire. È un sistema diabolico.

Quello che racconta non sembra compatibile con i diritti costituzionali.
Il quinto, sesto e ottavo emendamento alla Costituzione garantiscono il giusto processo, nessun sequestro illegittimo di beni senza un adeguato compenso, il gran giurì come forma di tutela dai processi fatti per capriccio o malizia, giustizia in tempi rapidi, una giuria imparziale, l’accesso a un legale e una cauzione ragionevole: non ho goduto di nessuno di questi diritti. Nessuno. La mia cauzione era di 38 milioni di dollari. Le sembra ragionevole? Il mio calvario è andato avanti per 8 anni. Questo le sembra ragionevole? Alla fine ho vinto. Ma se non avessi avuto la maggior parte dei miei beni qui in Canada avrebbero sequestrato tutto, avrebbero emesso mandati fasulli per bloccare tutti i beni e impedirmi di pagare i miei difensori. Gli avvocati mi sono costati 30 milioni di dollari.

L’avvocato Alan Dershowitz, a proposito del caso Scooter Libby, ha detto che è «la prova che il problema del sistema giudiziario sono i procuratori nominati dalla politica». È d’accordo?
Sia Dershowitz che Libby sono miei amici e hanno ragione. È stato anche più scandaloso il caso di Ted Stevens (ex senatore dell’Alaska morto in un incidente aereo nel 2010, ndr), che poi ha perso le elezioni per via del processo: i magistrati hanno deliberatamente nascosto le prove della sua innocenza. Uno di loro, e mi dispiace metterla in questi termini, ha avuto la decenza di suicidarsi. Mentre la corte ha pesantemente criticato l’accusa, ma non ha incriminato nessuno.

Perché la magistratura è intoccabile? Tutti, dal presidente all’ultimo funzionario locale, devono rendere conto di quello che fanno, ma per i magistrati la regola non vale.
Luigi XIV diceva dei protestanti che sono «uno stato dentro lo stato», ed è un po’ la stessa cosa per i magistrati. Negli anni, quando hanno condannato senza prove Scooter Libby, poi Ted Stevens e via dicendo, l’amministrazione e il Congresso si sono resi conto che era arrivato il momento di mettere un freno ai procuratori. Robespierre tenta di uccidere Fouché, ma alla fine Fouché riesce a convincere i giacobini che se Robespierre poteva ucciderlo, poteva uccidere anche tutti gli altri, e l’hanno fatto fuori. Dopo l’esecuzione di Robespierre hanno sospeso l’uso della ghigliottina.

Sta dicendo che la situazione non durerà a lungo?
Faccio una previsione che spero non si avveri, perché sono intimamente contrario alla violenza. I procuratori sadici e ingiusti hanno rovinato la vita a così tanti americani che vedremo diffondersi il fenomeno dei cittadini che uccidono i procuratori. Sarebbe in linea con il fatto che in America tutto si risolve con la violenza. Il movimento per i diritti civili è arrivato a una svolta con l’assassinio di Martin Luther King, e quello gay ha preso forza quando hanno ammazzato Harvey Milk: è così che funziona l’America.

Qual è il ruolo dell’amministrazione Obama in tutto questo?
Non penso che sia una buona amministrazione. Non mi è mai piaciuto Holder (il procuratore generale, ndr). Ha condotto le indagini su Arthur Andersen, che hanno portato al licenziamento di migliaia di persone innocenti soltanto perché lui sospettava di alcuni manager che sono stati poi assolti. Ha minacciato le aziende, ha garantito l’immunità a chi accusava i manager che lui indagava. Si chiama intimidazione.

Qual è oggi il suo giudizio sull’America?
Una delusione terribile. Una grande nazione che rischia di atrofizzarsi. Ammiro molto della sua storia, è un paese formidabile e il fatto che mi abbia indagato ingiustamente per otto anni non significa che non è una grande nazione. Ma la suprema ironia dei tempi moderni è che dobbiamo agli Stati Uniti la diffusione globale della democrazia e del mercato, ma al momento la democrazia americana non funziona. È un sistema corrotto per gli standard dei paesi avanzati.

Faccia qualche esempio.
Non ha, in termini relativi, un sistema educativo competitivo. Il sistema sanitario va bene per due terzi della popolazione, mentre è pessimo per gli altri cento milioni. Il sistema giudiziario è ridicolo, una disgrazia. Una banda di avvocati che mungono il paese. Il 97 per cento delle indagini si concludono con un patteggiamento prima ancora che venga celebrato il processo. È un riflesso scandaloso della qualità del sistema. Il 2,5 per cento sono verdetti di colpevolezza. Gli Stati Uniti hanno fra 6 e 12 volte il numero di prigionieri rispetto a Australia, Canada, Inghilterra, Germania, Francia e Giappone.

Siamo al declino dell’impero?
Gli Stati Uniti oggi sono un paese seriamente in declino. E i migliori uomini di questo paese non si candidano per guidarlo. Nel 1968, l’anno disgraziato dell’assassinio di Martin Luther King e Bob Kennedy, con 550 mila coscritti mandati in Vietnam, fra i 200 e i 400 che tornavano morti ogni settimana, sommosse ovunque, proteste contro la guerra, un anno orribile insomma, c’erano Lyndon Johnson, Hubert Humphrey, Robert Kennedy, Nelson Rockefeller, Richard Nixon e Ronald Reagan nella corsa per la Casa Bianca. Tutti erano qualificati per la presidenza, qualunque cosa si pensi di loro. Guardi le ultime elezioni: dei migliori, tipo Jeb Bush, Mitch Daniels e Chris Christie, Marco Rubio, nessuno si è candidato. Chi c’era nella corsa? Herman Cain. Newt Gingrich. Su, siamo seri. C’è un’involuzione in atto, ed è un male per il mondo, perché crea un vuoto.

E il vuoto tende a essere riempito.
Quando l’Europa si è persa gli Stati Uniti ne hanno preso il posto. Ma se gli Stati Uniti retrocedono le alternative a disposizione sono francamente inaccettabili.

Ha mai avuto in questi anni la tentazione di arrendersi?
Mai.

Cosa l’ha sostenuta?
Varie cose. Innanzitutto la coscienza di non avere infranto la legge. Non ho mai perso la speranza di ottenere giustizia. Per quanto gli Stati Uniti siano corrotti, non sono un paese fascista. La maggior parte degli americani sono persone perbene, e ce ne sono anche fra i giudici. Quando uno è perseguitato in quel modo ed è colpevole di qualcosa sa benissimo che con una semplice confessione può risparmiarsi molte sofferenze e spese; ma dato che io sapevo di non aver commesso nessun crimine ho deciso di continuare a lottare. E alla fine ho sostanzialmente vinto, l’impianto accusatorio fondamentale è stato frantumato e le restanti accuse sono state riesumate da un giudice demente della corte d’appello (Richard Posner, ndr) che recentemente il giudice della Corte suprema Antonin Scalia ha chiamato un «bugiardo». Poi è stato fondamentale tenere presente che il giudizio di queste persone non sarebbe stato il mio epitaffio.

Una parte l’ha avuta anche la fede?
Credo in Dio e sono sempre stato certo che ci fosse uno scopo anche in tutta questa sofferenza. In prigione ho incontrato molte persone religiose. Alcune erano baciapile un po’ eccessivi per la mia sensibilità, ma altre erano persone profonde e serie che affrontavano con grande umanità prove ben più dolorose delle mie. Il loro esempio è stato commovente. Non sono il tipo che ha visioni mistiche, ma ci sono stati alcuni momenti in cui ero certo che avrei avuto un infarto per la pressione troppo alta, oppure che sarei caduto in una depressione cronica, e non è mai successo.

Cosa farà ora?
Sto ricostruendo la mia fortuna nel settore privato, ma non ho motivo di parlarne perché non si tratta di aziende quotate. Scrivo editoriali che hanno 4 milioni di lettori fra Stati Uniti, Inghilterra e Canada. Ho pubblicato un libro sulla mia storia giudiziaria nel giorno in cui mi hanno rimandato in prigione per dimostrare che quel processo era illegittimo e per mandare al diavolo questo assurdo sistema carcerario. Dopo, ho voltato pagina. Non voglio diventare quello che gli inglesi chiamano un “pub bore”, gli ubriaconi che se ne stanno al bancone e raccontano sempre la stessa storia.

Ha qualche libro in cantiere?
Ne pubblicherò uno nel giro di un paio di mesi. È una storia strategica degli Stati Uniti, un libro molto filoamericano, perché nessuno nella storia umana ha fatto quello che hanno fatto i coloni negli Stati Uniti.

Poi c’è anche il nuovo programma qui in Canada.
Sarà un talk show con una anchorwoman, un’ora alla settimana su temi d’attualità. Ci sarà prima un mio breve editoriale poi alcune interviste fatte da entrambi. Ho ancora qualche buon contatto in giro.

Chi sarà il suo primo ospite?
Magari Donald Trump o Henry Kissinger, chi lo sa.

Nel libro parla molto dei suoi amici, quelli rimasti fedeli e quelli che l’hanno abbandonata. Ha scritto soprattutto di Kissinger. In che rapporti siete ora?
Abitavo a New York quando la Corte suprema ha dato l’ordine di scarcerazione. Erano usciti da poco vecchi documenti di Nixon e la stampa stava cercando di usarli per attribuire a Kissinger la colpa di avere abbandonato Israele. Ho scritto che quelle accuse erano spazzatura, niente di più. Mi ha scritto una lettera di ringraziamento e quando mi hanno scarcerato ci siamo rivisti a una cena con centinaia di invitati, quelle cose che si fanno a New York in cui uno paga 20 mila dollari per avere un tavolo e guardare per tutta la sera un tizio che dà un premio idiota a qualcun altro. Ero seduto vicino a lui. Gli ho detto: «Lasciamo perdere i dettagli di quello che è successo, sarebbe doloroso per entrambi e inutile a questo punto». Ma avevo con me le sbobinature dei suoi interrogatori con l’Fbi, che non avrei dovuto fargli vedere, ma non me ne fregava nulla, e gli ho detto che non credevo a una parola di quello che c’era scritto, perché non fanno altro che mentire. Gli ho detto che volevo che sapesse quello che i federali gli avevano messo in bocca, che gli avevano fatto dire che ero colpevole. Gli ho detto anche che, vista la sua autorevolezza, un suo intervento in mia difesa avrebbe potuto cambiare le cose, ed ero deluso dal fatto che lui non mi avesse difeso. Gli ho spiegato, infine, che volevo ancora essere suo amico, ma avrei accettato di riparare il nostro rapporto soltanto se lui era convinto davvero che io fossi innocente. Immediatamente ha detto: «Non ho mai creduto che fossi colpevole». Fine della storia. Adesso ci parliamo ogni due settimane e ogni tanto viene a trovarmi.

E com’è il suo rapporto con Rupert Murdoch?
Quello è più complicato. Non siamo mai stati particolarmente amici, soltanto competitor in Australia e Inghilterra. Lui è un businessman tosto, e anch’io un capitalista. Quando mi ha fatto la guerra abbassando i prezzi dei giornali non mi ha dato fastidio, è parte del gioco. Un gioco duro, ma aveva il diritto di farlo. E alla fine ha perso. Prima del processo non ci siamo mai insultati tramite i nostri giornali, c’era una specie di accordo fra gentiluomini, e io non l’ho attaccato quando lui era in difficoltà. Pensavo avrebbe ricambiato il favore, invece no. Quando sono finito sotto accusa tutti i giornalisti nell’impero di Murdoch hanno avuto l’ordine, da lui in persona, di colpirmi senza pietà. Ho scritto che era uno psicopatico, un uomo malvagio. Tutti in Inghilterra sapevano in che modo lavorano i suoi, le intercettazioni e tutto il resto, e la cosa scandalosa non sono i suoi modi spietati ma l’ipocrisia di un establishment che gli ha lisciato il pelo per quarant’anni e tutto a un tratto si è scandalizzato per i suoi metodi. Lui non è un ipocrita, è soltanto l’uomo più cattivo che abbia mai conosciuto.

Da cattolico, cosa pensa della scelta di Benedetto XVI di rinunciare al papato?
È stato un gesto ammirabile. Ne parlavo con mia moglie, che non è cattolica, e le sembrava strano che il Papa potesse lasciare il suo posto così, ma credo che in un’epoca di continua esposizione mediatica avere un pontefice che non ha il vigore fisico necessario per guidare la Chiesa può essere un grave problema.

Cosa si augura per il futuro della Chiesa?
Credo che la Chiesa debba preservare le verità fondamentali della fede, ma ripensare alcune cose non fondamentali. Certo, i media raccontano la solita storia che la Chiesa è in crisi, non ci sono vocazioni, i fedeli scappano, ma a me sembra che il cristianesimo sia vivo. È un’organizzazione decrepita solo nella testa degli opinionisti à la page. Mi dica: quale organizzazione secolare può dirsi solida come la Chiesa?

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