I dolorosi doni del Mistero che hanno fatto della mia vita una lunga settimana santa

Pubblichiamo la rubrica di padre Aldo Trento contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Siamo nel cuore della settimana santa, giorni in cui la Chiesa ci fa rivivere la sofferenza di Gesù. Una sofferenza iniziata nell’orto del Getsemani e culminata nella croce. «Non si va in Paradiso con una Ferrari che corre su una bella autopista», mi diceva un amico, ma camminando sullo stesso sentiero percorso da Gesù.

Tutti i giorni rivivo, anche se in forma lieve, i passi di Gesù verso il Calvario. Spesso vorrei scappare, seguire un cammino più facile, ma capisco che non posso rivivere in me l’allegria della resurrezione, senza passare per il Calvario. In questi lunghi anni di presenza in Paraguay ho seguito i passi di Gesù conoscendo come Lui la nevrastenia, come Péguy definisce la terribile solitudine del Getsemani. Nessuno dei suoi amici è stato al suo fianco, ma l’angoscia più grande è stata quando rivolgendosi al Padre ha detto «se è possibile, passi da me questo calice… però sia fatta la tua volontà». Che cosa di più umano di questa richiesta e di questo abbandono alla volontà del Padre?

Da quel momento il dolore, la solitudine di Gesù è stata un crescendo che culminò sulla croce quando in un momento di disperazione ha gridato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Parole che mi fanno venire i brividi. Come, il Figlio di Dio, per salvarmi, per salvarci ha dovuto morire su una croce? Gesù mio, sento un bisogno immenso di chiederti perdono per tutti i minuti, i secondi, in cui la distrazione mi ha tolto lo sguardo da Te. Per questo ti ringrazio perché in questi ventisei anni di sofferenza mi hai aiutato a vivere anche le distrazioni tenendo lo sguardo su di Te, Gesù mia dolcezza; ciò che gli esperti della mente chiamano depressione o bipolarismo l’ho vissuto come una grande ipotesi positiva, come una lenta purificazione, come una notte oscura che mi ha fatto gridare: «Signore, mostrami il tuo volto».

Sono stati anni lunghi e difficili, perché anche se al tuo fianco il Padre ti mette un amico, il dolore è solo tuo. Nessuno può prenderne un pezzettino. Mi piace pensare alla Madonna. Cosa non avrebbe fatto per sostituirsi al dolore di suo figlio!

Ricordo quanti chilometri ho fatto il primo anno di esaurimento per chiedere alla Madonna che mi liberasse da questa malattia, come l’ho chiamata per molti anni. Ventimila chilometri, andando da un santuario all’altro, supplicando la Madre di Gesù. Eppure neanche lei mi ha ascoltato. Solo dopo dieci anni di oscurità, si è acceso un lumicino, l’inizio di un cammino che mi ha permesso di rincontrarmi con me stesso, di dire finalmente «Io», di sperimentare cosa vuol dire che l’io è relazione con il Mistero.

Ma il Padre teneva riservata un’altra prova per purificarmi, per non togliere il mio sguardo dalla sua Presenza. Da una prova ad un’altra: dalla depressione, alla spondilite anchilosante dismetabolica. Un altro regalo dal Mistero per poter sperimentare cosa vuol dire nella concretezza di ogni minuto «Io sono Tu che mi fai». Nei momenti in cui sento la pesantezza del mio corpo, che è come una macchina senza sospensioni, riconosco ancor di più la sua dolce Presenza.

Le parole di una ragazza
La mia vita è diventata una lunga settimana santa. Vivo dei momenti difficili, in particolare quando celebro la Santa Messa e poi faccio la processione con il Santissimo Sacramento visitando e benedicendo ogni ammalato. Tenendo l’ostensorio stretto alla mia fronte, mi sento un tutt’uno con Lui; Gli posso parlare ed anche lamentarmi perché spesso mi sembra di portare un grosso peso ed è vero perché tengo tra le mani il creatore del mondo. Però che dono, che gioia è tenere fra le mie povere mani, piene di calli, Gesù, il mio tutto, la ragione, il significato della mia vita. Ogni giorno accompagno qualcuno a morire e vivo dei momenti in cui dico fra me: «Però, che bello sarà incontrare Gesù, l’amore della mia vita».

Desidero condividere con voi ciò che ha detto una delle mie figlie, vittime della violenza, a padre Patrizio, durante un’ora in classe, nella quale si proponeva una riflessione sul significato della parola giubilo e giubileo: «Quando avevo tre anni mio padre morì di Aids e mia madre ebbe paura che fossi stata contagiata. Da quel momento mi allontanai da lei e arrivai a vivere nella Casa di Chiquitunga, nella Fondazione San Rafael di padre Aldo Trento. Sempre mi sono chiesta perché ho dovuto vivere tutto questo, e questa domanda, come anche ciò che era successo alla mia famiglia, mi causò un grande dolore. Però da qualche tempo ho capito che sto vivendo in questa casa perché Dio voleva darmi un padre. Con padre Aldo io provo giubilo, perché lui è come il padre che io non ho avuto. Grazie a lui ho superato molte traversie e ciò mi fa essere tanto riconoscente».

paldo.trento@gmail.com

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