Gli operai che fecero l’impresa

Storie di ex dipendenti che hanno creduto nelle loro aziende più delle aziende stesse. Viaggio nel Nord-Est dei “workers buyout”

Articolo tratto dallo speciale dedicato al senso del lavoro nel numero di Tempi di giugno 2019. Per leggere gli altri contenuti dello speciale, clicca qui.

***

Della grande crisi che il Nord-Est sta faticosamente cercando di lasciarsi alle spalle, l’eredità certamente più duratura è rappresentata dal silenzio. Un silenzio irreale che aleggia su capannoni abbandonati, incompiuti o decapitati per risparmiare sulle imposte ma condannandoli così a un lento e progressivo degrado. Come sbiadiscono le insegne, così si cancellano i cartelli delle agenzie immobiliari, ingoiati dalla vegetazione che buca i grandi piazzali d’asfalto e cemento. È il giro di boa di un modello industriale durato una cinquantina d’anni che ha fondato tutto il suo benessere sulla manifattura, l’industria e l’artigianato, guardando con orgogliosa diffidenza a tutto quello che non fosse strettamente inerente alla produzione materiale, all’oggetto e alla trasformazione di una materia grezza attraverso il lavoro.

«Quest’azienda era diventata un nido di piccioni», chiosa Erasmo d’Onofrio, direttore generale della Cooperativa Fonderia Dante. «Da vent’anni nessuno ha creduto più nella ghisa e avevano completamente abbandonato il settore». San Bonifacio, paesone industriale alle porte di Verona incastonato fra l’autostrada, le campagne e i vigneti, è cresciuto insieme alla sua industria pesante. Le caldaie Ferroli, in ghisa, hanno saputo conquistare i mercati nazionali ed europei fino a quando le normative antinquinamento e la concorrenza non hanno iniziato a penalizzarle. Ghisa e condensazione, si sa, non sono mai andate troppo d’accordo e l’azienda subisce anni di forte crisi, col proprio volume d’affari in costante riduzione. Nel giro di un decennio si passa da 75 mila caldaie ad appena 10, 12 mila pezzi. La Ferroli con 1.200 dipendenti arranca, soffre, finché non cede e si appella alla ristrutturazione dei debiti. I creditori mugugnano, incalzano, si fanno vivi i fondi d’investimento e l’azienda inizia a intravvedere la luce. Un’alba amara, però, che sacrifica sull’altare della speranza di salvezza una buona parte dei posti di lavoro, circa 400.

Questione di punti di vista

A farne le spese sono, in prima battuta, il centinaio di lavoratori della ghisa: mai il padrone, scomparso tempo addietro, avrebbe voluto che si chiudesse la sua amata fonderia ma tant’è, da qualche parte bisogna pur cominciare a tagliare e la ghisa è un settore in crisi da un pezzo. I lavoratori della Ferroli, però, non sono tipi da rassegnarsi: abituati al caldo, alla polvere e al rumore infernale dell’industria pesante per eccellenza hanno nell’immobilità dei macchinari la loro unica paura. Il resto, in qualche modo, s’affronta. «Una sessantina di operai avevano deciso, tramite dei contatti con Legacoop, di valutare la possibilità di rilancio di questa azienda – continua a raccontare il direttore generale D’Onofrio – perché i parametri di riferimento che un fondo d’investimento ha sono diversi da quelli che delle persone senza lavoro possono rilevare, intravvedere in un rilancio. Chi lo considera un peso e chi lo considera un’opportunità».

L’opportunità di un rilancio per la ghisa veronese c’è e qualcosa inizia a muoversi: sfruttando la fitta rete di contatti che legano il mondo cooperativo alle istituzioni e ai sindacati, si inizia a fantasticare di un workers buyout.

Li chiamano così, workers buyout, all’inglese, perché in italiano sembrerebbe troppo romantico. Insomma, coraggio imprenditoriale senza neppure lo scudo di un’ideologia che possa nascondere dietro di sé le paure di una schiera di padri di famiglia che alla crisi possono opporre solo mani sporche di sabbia nera come la notte.

7 casi su 140

«Le cooperative son sempre nate da situazioni di crisi e non dai ricchi». Franco Mognato, direttore regionale di Legacoop Veneto, è uno venuto su a pane e cooperazione e non le manda certo a dire. «Però negli ultimi anni, dalla crisi del 2008, c’è stata una grossa ripresa di questa attività e i fattori sono stati tanti e diversi. Nel nostro caso, abbiamo avuto la capacità di portare a regime tutta una serie di competenze di carattere giuslavoristico, aziendalistico e finanziario; di farlo con risorse e personale propri e d’aver messo in rete tanti soggetti: associazione, strumenti finanziari, sindacati, le istituzioni pubbliche come l’Inps, la Regione Veneto nella fase di crisi dell’azienda e poi Banca Etica che ha avuto un ruolo fondamentale in quella di finanziamento». In soldoni, la faccenda è piuttosto semplice: un’azienda entra in crisi, gli operai non si danno per vinti e si persuadono di poterla rilanciare. Grazie agli strumenti della cara, vecchia legge Marcora del 1985 non tutto è perduto con il fallimento, così il meccanismo inizia a muoversi: i sindacati fanno quadrato, Legacoop studia le carte e i possibili piani di sviluppo, Coopfond e gli altri fondi cooperativi rifanno i conti e la Regione Veneto ci mette del suo, attraverso l’assessorato al Lavoro.

I numeri per salvare la fonderia Ferroli ci sono, ma la strada non è in discesa: «Un lavoro difficile», continua Mognato. «Se faccio la cooperativa di facchini è un conto, ma se costituisco una coop in cui devo interloquire con un tribunale, fare l’affitto e poi l’acquisto di un ramo d’azienda, investire… È solo essendo scrupolosi che abbiamo acquistato la fiducia nei nostri interlocutori, ad esempio nell’assessore Elena Donazzan: all’inizio non ci conoscevamo, dopodiché ha capito che noi non facciamo l’operazione a prescindere, ma soltanto quando abbiamo la certezza che l’investimento vada bene. In questi 9 anni abbiamo visto circa 140 casi di possibili workers buyout e ne abbiamo scelti solo 7».

Ci sono dei limiti oggettivi alla possibilità di salvare un’impresa in difficoltà, legati in prima battuta alla produzione di riferimento e poi alla dimensione dell’azienda stessa e al conseguente capitale. «Noi non mettiamo mai più risorse di quante ne mettano i lavoratori, perché il controllo deve rimanere a loro», spiega Aldo Soldi, direttore generale di Coopfond. «Sono proprio loro, infatti, che ci investono tutto a cominciare dalla Naspi e se non ci sono possibilità siamo i primi a non illuderli». Perché il rischio di illudersi è forte: nonostante l’Inps metta a disposizione l’anticipo delle indennità e i fondi cooperativi ne garantiscano il raddoppio, non tutte le aziende hanno comunque la forza di sostenersi. Non tutte le aziende, soprattutto, possono schierare manager di professione come quelli che hanno preso a cuore la Fonderia Dante e spesso il salto da lavoratori a cooperatori ha del traumatico.

Una scelta di fiducia

«Il punto non è: ho investito la Naspi, devo crederci per forza», chiarisce Enrico Rigolin che, come segretario provinciale della Femca Cisl, ha seguito in prima battuta un altro workers buyout che ha fatto scuola, quello del Centro Moda Polesano. «Il punto è: non voglio andare in cerca di un lavoro altrove perché qui c’è e io investo tutto perché ci credo. Prima ancora che economica, è una scelta di fiducia. Un ruolo importante l’ha giocato Legacoop: non voglio fare pubblicità, anche perché noi che veniamo dal mondo cattolico non dovremmo essere Legacoop, però sono stati bravi. Le lavoratrici son state seguite e bene».

Qualcosa si muove, qui a Nord-Est, e dopo decenni passati a curarsi ciascuno del proprio orto si inizia a non badar più così tanto agli steccati, anche a quelli ideologici. Gianluca Pretto, sindacalista della Fiom Cgil e oggi presidente della Cooperativa Fonderia Dante, ha gli occhi lucidi quando si tocca l’argomento del nome dell’azienda: «Finché è stato bene, è sempre venuto ogni giorno a visitare lo stabilimento. La fonderia l’ha voluta lui e non ha mai voluto saperne di chiuderla nonostante in molti gliel’avessero consigliato, così ci è parso naturale chiamare la cooperativa come lui: Dante, Dante Ferroli. È stato come un papà per tutti noi».

Elena Donazzan, assessore veneto al Lavoro, riassume i workers buyout con una battuta: «Non sono soci cooperatori ma imprenditori cooperatori». L’essenza della questione è tutta qui: i lavoratori si fanno carico del risanamento della loro azienda in difficoltà, fallita o in liquidazione coatta e la risanano. Almeno ci provano, ma per farlo dismettono i panni del lavoratore dipendente per indossare quelli dei cooperatori, degli imprenditori di se stessi. «Si tratta di un salto culturale in cui stiamo investendo e in cui credo molto», spiega l’assessore Donazzan. «Ma soprattutto dobbiamo prepararci anche a livello di formazione, partendo dai giovani e dalle scuole in cui dobbiamo insegnare: cos’è la cooperazione, cos’è un piano finanziario, cos’è un piano d’investimenti e come valutare un’impresa».

L’incontro di due culture

La sfida che la Regione, assieme agli altri soggetti coinvolti, s’è trovata ad affrontare è stata quella di un’autentica rigenerazione delle imprese in crisi, mettendo a frutto le potenzialità della legge Marcora ma anche investendo in un tessuto di relazioni industriali e istituzionali che non ha molti precedenti. Secondo Donazzan, «la centrale delle coop rosse è più imprenditrice di quanto si pensi, in Veneto: un’altra riflessione su come cambiano i tempi. Mi ricordo gli scontri che abbiamo avuto in passato, anche su pregiudizi veri, non faccio fatica ad ammetterlo. Sui temi, però, su un’economia incentrata sulle persone, sulla partecipazione alle decisioni, le due culture ci hanno fatto approdare al medesimo risultato, che è quello della valorizzazione del capitale umano su cui investire».

C’è una moltitudine dei soggetti che, attorno ai workers buyout, ha iniziato a coagularsi, a “fare sistema” riuscendo a colmare differenze di approccio come di filosofia. «Se oggi venisse da noi un’azienda in crisi e, fatto il primo vaglio, risultasse essere una buona ipotesi per un workers buyout – chiosa il presidente della Legacoop Veneto, Franco Mognato – gireremmo la chiave e si metterebbe in moto una macchina che nove anni fa abbiamo dovuto costruire». Una macchina rodata che ha permesso, negli anni, di salvare centinaia di posti di lavoro ma che oggi ha bisogno anche di una politica industriale più ampia: «La priorità è parametrare la tassazione in base ai posti di lavoro: più lavoratori hai, meno pressione fiscale devi subire», spiega l’assessore Donazzan. «Oggi, per certi aspetti, con industria 4.0 accade il contrario: più meccanizzi, più robotizzi e più ti agevolo. Non voglio tornare all’età della pietra, ma voglio dire che se tu meccanizzi e diventi, giustamente, un’azienda tecnicamente evoluta, io ti agevolo fiscalmente in ragione di quanti posti di lavoro continui a garantire».

@gsalmy

Foto Gianluca Salmaso

Exit mobile version