Giusto tagliare i costi della politica. Ma chi paga quelli dell’Europa?

Poiché le lingue sono quasi quante sono i paesi aderenti, un semplice conto mostra che sono necessari quasi 350 traduttori. Di qui un capitolo di spesa folle e lautamente remunerato, come tutti i contratti di Bruxelles. Pubblichiamo la rubrica "intellettuale cura te stesso", che appare sul numero 51/2011 di Tempi da oggi in edicola

Chi può contestare l’opportunità di tagliare le spese della politica italiana? È un’esigenza talmente nota, discussa e condivisa che appare superfluo aggiungere una sola parola per difenderla. Ma perché non si parla mai delle spese folli e degli sperperi della immensa baracca buro-tecnocratica dell’Unione Europea? Alla fin fine, si tratta di costi che gravano sui bilanci dei singoli Stati e non sono sostenuti da un intervento divino.

Una sommaria passeggiata sul portale dell’Ue è sufficiente a provocare il capogiro: un numero incredibile di istituzioni, uffici e agenzie. Le sole agenzie settoriali sono 24, dall’agenzia per il controllo della pesca a quella per l’uguaglianza di genere, dall’ufficio delle varietà vegetali a quello per i diritti fondamentali. Chi voglia compilare il curriculum in formato europeo rischia di perdere la testa tra le tante opzioni di Europass e può dilettarsi con le schede di autovalutazione. È facile immaginare quale impiego di personale abbia comportato mettere in piedi questo barocco marchingegno. Si può anche scoprire che accanto al più noto programma Erasmus di istruzione e formazione ve ne sono molti altri: Leonardo da Vinci, Comenius, Grundtvig, Jean Monnet, Tempus, Erasmus Mundus. Molte notizie si possono trovare anche sull’Official Journal of the European Union, il quale – si badi bene – è redatto in 22 lingue. 

Già, perché il problema delle lingue è uno dei più onerosi dell’Ue. Gli ingenui immaginavano che si sarebbe progressivamente andati verso la prevalenza delle lingue principali, senza fare tante assurde ipocrisie: mettere tutte le lingue sullo stesso piano non è una cosa seria e sarebbe stato ragionevole chiedere che i cittadini europei, nel corso dei decenni, si sottoponessero allo sforzo di riferirsi ad alcune delle lingue più importanti. Ma l’Ue è il regno del politicamente corretto e tutto va messo sullo stesso piano: casomai è da attendersi che alle lingue ufficiali se ne aggiungano altre, come il catalano e il basco, per poi aprire la strada ai dialetti. Poiché le lingue sono quasi quante sono i paesi aderenti, un semplice conto mostra che sono necessari quasi 350 traduttori, uno per ogni coppia del tipo “polacco-spagnolo”, “portoghese-lituano”, “italiano-ungherese”, “olandese-greco”, “romeno-francese”, eccetera. Ma di traduttori ne servono alcuni multipli di 350, se non altro per diversità di mansioni e turni di lavoro. Di qui un capitolo di spesa folle e lautamente remunerato, come tutti gli stipendi e i contratti dell’Unione, che rappresentano una pacchia ambitissima da ogni comune mortale.

V’è poi il capitolo sprechi legato alla pesantezza delle procedure burocratiche. Chi ottenga un finanziamento europeo per la ricerca scientifica è meglio che vi rinunci se non ha uffici di supporto. Dovrà impiegare buona parte del tempo in adempimenti formali e in viaggi per rendicontare l’attività; il tutto secondo il principio delirante per cui invece di valutare l’esito finale dell’attività, la si controlla continuamente, col risultato che invece di far ricerca ci si occupa di farsi monitorare.

A ciò si aggiungano gli sprechi dovuti alle lotte indispensabili contro le scelte demenziali e i soprusi dell’eurocrazia, dal tentativo di vietare la pizza a legna, di equiparare il parmigiano al “parmesan”, alla chiusura delle malghe montane per assenza di piastrelle di dimensione prestabilita, alle politiche agricole che hanno massacrato l’ambiente agricolo del continente.

Soltanto gli imbecilli possono considerare che sia euroscetticismo chiedere un robusto ridimensionamento di questo apparato di stile sovietico: i nemici dell’Europa sono a Bruxelles.

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