Giù le mani da “It’s coming home”, dannati storpiatori

Altro che trionfalistico, l'inno degli inglesi agli Europei è un cantico di dolore e speranza, sconfitte in campo e fiducia sugli spalti. E prima di motteggiarlo dovreste conoscerlo

Tifosi inglesi a Wembley per la finale degli Europei (foto Ansa)

È un inno all’essenza del tifo, It’s coming home, e forse conoscere testo e storia di questa canzone darebbe un po’ più merito al suo ritornello, che tanto viene motteggiato («It’s coming Rome»…) in questi giorni su social e giornali a seguito del successo dell’Italia sull’Inghilterra nella finale degli Europei.

E sebbene sia diventato un semplice inno ripetuto quasi alla nausea dai tifosi dei Three Lions durante questo mese di partite, il messaggio che manda è tutt’altro che trionfalistico e celebrativo, ma anzi tanto triste da essere bello, nostalgico dei successi di un tempo eppure carico di promesse, quelle con cui ogni tifoso (e ogni uomo!) può guardare al suo domani calcistico.

https://www.youtube.com/watch?v=RJqimlFcJsM

Il cantico delle frane sportive

«It’s coming home» è nata nel ’96, quando il calcio “tornava a casa” perché l’Inghilterra riotteneva l’organizzazione di una grande competizione dopo il successo nel Mondiale casalingo del ’66. In mezzo, trent’anni di frane sportive e pessime figure. Per l’occasione la Football Association commissionò la canzone a Ian Broudie (voce dei Lightning Seeds) e a due comici (David Baddiel e Frank Skinner, che in tv avevano un programma sul calcio), che inventarono una canzone volutamente dai toni malinconici:

«Everyone seems to know the score / They’ve seen it all before / They just know / They’re so sure / That England’s gonna throw it away / Gonna blow it away» («Tutti sembrano già conoscere il risultato / già lo hanno visto in passato / Già lo sanno / ne sono così sicuri / che l’Inghilterra butterà via l’occasione / la spazzerà via»).

 

«Lo canteranno solo i tifosi»

Eppure, dice la canzone, «Thirty years of hurt / never stopped me dreaming» («trent’anni di dolore / non mi hanno mai impedito di sognare»), e i grandi momenti del passato – si parla ad esempio del Mondiale del ’66, o del quarto posto a Italia ’90 – sono lì a dimostrarlo e a infiammare anche la più utopica fiducia nel futuro. 

È, insomma, l’essenza del tifo e della vita, aspettare quando i risultati si faranno più propizi, mandare giù le delusioni e cercare al fondo di esse un po’ di speranza. Quando questa canzone fu composta, la FA propose agli autori di avere qualche calciatore della nazionale a cantarla, ma Broudie rifiutò, perché, diceva, doveva essere un inno solo dei tifosi «che, per il 90 per cento delle volte, significa perdere. Gran parte dell’essere tifosi di calcio è delusione».

Europei e la speranza dei 78 mila

Mentre David Baddiel, anche lui autore del testo, ricorda che la canzone gioca su qualcosa di magico, ovvero «sul presumere che perderemo, ragionevolmente, basato sull’esperienza, ma anche sulla speranza che invece ciò non succederà», basata su una storia intessuta di delusioni e sconfitte, ma pure di «quei frammenti di gloria del calcio inglese che, al di sopra e al di là della propria razionalità, ti danno speranza».

Per questo, diceva Baddiel al Guardian, sentirla cantare a tutta Wembley è straordinario: «È una canzone ottimista, ma conserva in tutto qualcosa di malinconico e fragile. La prima volta che l’ho sentita cantare da 78.000 persone ho potuto sentire anche questo: il dolore e la speranza, oltre che la gioia».

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