Giovanni, ergastolano, sarà dottore in Filosofia

Il racconto di un professore universitario che sta aiutando un detenuto a preparare la tesi di laurea su Emmanuel Lévinas. «Grazie a lui riesco a vedere qualcosa che non avevo visto prima»

Articolo tratto dal numero di Tempi di settembre.
 
Ho iniziato a frequentare il carcere di Nuchis circa due anni fa. Si tratta di un carcere che ha avuto direttori e direttrici molto capaci e che favorisce l’organizzazione di numerose attività. Un caro amico, Federico, vi stava svolgendo, insieme ad un giornalista, un progetto di scrittura creativa che coinvolgeva una quindicina di carcerati e che ha portato alla pubblicazione di un romanzo: I ricordi non bussano. Tra gli studenti del corso vi erano vari iscritti all’Università di Sassari, la maggior parte iscritti a giurisprudenza, mentre uno aveva stranamente deciso di fare un percorso filosofico. Parlando con il detenuto, che chiamerò Giovanni (il nome è di fantasia), è emerso che aveva intenzione di preparare l’esame di Filosofia teoretica tenuto del professor Meazza, con il quale collaboro come assistente. Una volta che Federico me lo ha riferito mi sono reso disponibile a tenere una serie di lezioni al fine di aiutarlo a preparare l’esame.

Le ragioni erano diverse. La prima è che il povero Giovanni avrebbe dovuto preparare un esame particolarmente complicato su Heidegger e Lévinas, cosa difficilissima con i soli testi e senza alcuna spiegazione. Vi era poi la convinzione che il momento fondamentale della formazione universitaria fosse la lezione e lui non aveva avuto la possibilità di seguirne alcuna. Vi erano poi due persone che da Sassari andavano a Tempio Pausania ogni lunedì per tenere il corso di scrittura creativa e dunque non avrei dovuto prendere la mia macchina e guidare per oltre 140 chilometri in una strada abbastanza faticosa. Infine, e soprattutto, mi incuriosivano i resoconti di Federico, il quale parlava della sua esperienza sempre con entusiasmo, come se qualcosa di quel che gli era accaduto lo avesse arricchito, ma ancora di più come un’esperienza che tutti dovrebbero fare.

Insomma, l’occasione incontrava un desiderio che avevo da tempo. Desiderio articolato: da un lato, volevo conoscere le persone delle quali mi parlava Federico, dall’altro, ero incuriosito dal fatto di entrare in relazione con qualcuno che vive una situazione estremamente diversa dalla mia sul piano della libertà di azione e soprattutto, ma questo lo avrei capito meglio in seguito, sul piano della percezione del tempo e del futuro. Giovanni è un ergastolano o, per dirlo diversamente, un fine pena mai. Risolte le normali procedure relativi ai permessi, ho più o meno preparato la mia prima lezione e mi sono recato in carcere. Il carcere è molto diverso da come lo immaginavo, mi è sembrato un bel carcere. La struttura è nuova e molto luminosa. Per arrivare all’aula in cui si tengono le lezioni bisogna attraversare almeno sette porte blindate con un citofono dal rumore fastidioso. Ho sempre trovato simpatico il fatto che per fare lezione mi è stata assegnata la stanza del cappellano. Lì ho conosciuto Giovanni.

Durante la prima lezione ho tentato di capire soprattutto quale fosse la sua preparazione. Ne sono rimasto sorpreso: mi aspettavo un livello decisamente basso, invece lui sì è subito dimostrato preparato e con una buonissima capacità di linguaggio. Dopo vari mesi di lezione si è sentito abbastanza pronto da sostenere l’esame. L’esame naturalmente è andato bene, anche il professore titolare della materia è rimasto positivamente colpito. Una volta sostenuto l’esame, ritenevo, con un certo dispiacere, che la mia esperienza fosse conclusa, certo avevo dato a Giovanni la disponibilità a seguirlo in tesi, ma mancavano ancora un po’ di esami. Dopo una decina di mesi mi viene comunicata la sua decisione di fare una tesi con il mio professore ed è così che abbiamo iniziato. La tesi sarà sul filosofo lituano-francese Emmanuel Lévinas.

Tutti mi chiedono se ho avuto o se ho paura di fare lezione da solo con lui. La mia risposta è sempre no. Non ho mai avuto paura. Giovanni mi si è subito presentato come un uomo abbastanza distinto, direi semplice ed elegante allo stesso tempo, molto amichevole e cordiale. E poi che motivo dovrebbe avere per farmi del male? Certo ogni tanto, quando mi adiro perché non ha terminato di leggere e schedare i numerosi libri che gli assegno da leggere, mi viene da ridere perché mi sembra abbastanza assurdo rimproverare una persona ritenuta tanto pericolosa.

Il valore educativo della detenzione
Da quando vado in carcere per le lezioni non c’è mai stata occasione di parlare con Giovanni del perché fosse lì con una pena senza fine, se si fosse pentito, che tipo di esperienza fossero la carcerazione o l’isolamento. Abbiamo a mala pena un paio d’ore a settimana per parlare dei temi del corso o della tesi. Ad ogni lezione il lavoro ci appassiona sempre di più: il tempo, la questione circa il senso dell’essere, il volto, la responsabilità, la questione del male, etc. Giovanni è molto acuto e grazie alle discussioni con lui ho sempre occasione di vedere qualcosa che non avevo visto prima anche su testi che conosco bene: una delle opere sulle quali abbiamo lavorato per l’esame è una mia traduzione. Sono particolarmente esigente con lui perché è un bravo studente. La preoccupazione maggiore è sempre quella di offrirgli una formazione di altissimo profilo in modo che possa diventare un bravo studioso. Insomma, nel tempo Giovanni per me non è tanto lo studente carcerato, quanto piuttosto un bravo studente a cui offrire il più possibile.

Spesso mi interrogo su quale sia il senso del formare delle persone che non usciranno mai dal carcere. Quando si fa studiare qualcuno in genere ci si aspetta che la sua preparazione serva in funzione di una attività che andrà a svolgere e ci si aspetta anche che quella attività contribuisca al benessere della società o comunque di una collettività. Ma come è possibile in questi casi? Insomma, la formazione ha una utilità per coloro che condividono la situazione di Giovanni? Certo può essere utile per se stessi, ma può essere utile anche per gli altri? In fondo sarebbe uno spreco assurdo se tutto ciò non potesse avere una ricaduta positiva per gli altri.

Sono sempre più persuaso del fatto che una riflessione sul valore educativo della detenzione, o della pena, debba confrontarsi con la questione dell’utilità in rapporto ai casi di fine pena mai. Non mi interessa tanto dire se sia giusto o meno che ci sia un fine pena, mi sembra importante riflettere sull’esigenza di un senso di utilità rispetto alla questione del valore rieducativo della pena. Ora, questo è più chiaro per chi uscirà dal carcere, ma mi sembra più problematico per chi resta in carcere. Una volta mi è capitato di parlarne con Giovanni. Non abbiamo trovato soluzioni, è un lavoro che esige molta riflessione. Siamo rimasti d’accordo che dopo la laurea sarà uno dei primi temi sui quali lavorerà come studioso.

Foto Ansa

Exit mobile version