Corruzione, il problema non sono le cozze pelose ma i ratti muschiati

Il vero rimedio agli scandali non è l’uomo nuovo in Terra predicato dai savonaroliani e nemmeno la garanzia costituzionale d’imparzialità della pubblica amministrazione, ma la sua riduzione all’essenziale. Come spiega benissimo il vecchio paradosso dei pubblici guardiadighe olandesi.

Le cozze pelose del sindaco progressista di Bari e i palazzi venduti a giudici e politici. I milioni della Margherita spariti non si sa dove. Quelli che mancherebbero nel conto incrociato tra An e i due tronconi derivanti, dopo la rottura tra Fini e Berlusconi. Gli avvisi di garanzia al Consiglio regionale lombardo e le indagini sulle tangenti Pdl-Lega. Il sospetto che lambisce anche l’integerrimo Errani, per un milione di euro dato dall’Emilia Romagna a una cooperativa guidata dal fratello. La retata in provincia di Napoli che spalanca le porte del carcere a 16 giudici tributari. Mi fermo alle ultimissime di cronaca. A questo fior fior di coinvolgimenti in inchieste per malversazioni pubbliche, che incrociano l’intero asse destra-centro-sinistra, le reazioni possono essere di almeno tre tipi.

La prima è quella moralistica. Improntata all’invettiva generalizzata in taluni casi, più spesso riservata ai politici indagati dell’area avversaria. Appartengono a questa schiera gli “indignati”, categoria che in questi anni è entrare a vele spiegate nel dizionario politico. Inglobando in un unico lemma sia gli antimercato sia gli antipolitici, i palingenisti convinti che sia l’illuminazione della religione dell’umanità su questa Terra a evitare il male. La pecca numero uno di questa reazione è quella che da sempre priva di efficacia il savonarolismo manipulitista: su questa Terra l’uomo è imperfetto. Il virtuismo monda-difetti va bene come tecnica retorica acquista-consensi, per la presa del potere da parte di minoranze inquisitoriali. Poi, assurti al potere, saranno eventualmente magistrati non indipendenti a garantire che l’etica del potere resti monda e ad essere corrotta sia solo quella degli oppositori.

C’è poi la seconda reazione, radicatissima nella democrazia moderna, ispirata al Politik als Beruf di Max Weber. Approfittando dell’anfibologia della parola germanica, il suo “Beruf” indica sia “vocazione” che “professione”. Ecco che la macchina politico-amministrativa va sottoposta a controlli ex ante ed ex post, per impedire che il politico-amministratore compia transazioni e scambi come di diritto privato, offrendo servizi e concedendo facoltà al privato in cambio di sostegni e favori. Rispondono a questa impostazione weberiana dichiarazioni apodittiche di garanzia ex ante come l’articolo 97 della Costituzione, in materia di imparzialità e indipendenza della pubblica amministrazione, e in tale versione discendono storicamente dalla pesante eredità della filosofia del diritto di tipo idealistico-hegeliano, e dalla sua idea di “Stato etico” impregnato di un superiore spirito del tempo. Ma appartengono allo stesso filone hegelian-weberiano anche i controlli ex post di tipo penale, rappresentati delle maxi indagini della magistratura che anticipano col massacro mediatico-giudiziario in fase d’indagine il vero processo sanzionatorio. So che molti non saranno d’accordo, convinti da due decenni che l’azione dei magistrati risponda invece a una logica di filosofia morale e del diritto d’impianto kantiano. Mi tengo invece la mia opinione, che non è quella di Repubblica e Corriere. È hegeliana l’impronta di chi identifica nello Stato o in una parte politica l’Assoluto dello Spirito in atto nella Storia. Per la definizione di “Hegel profeta dei totalitarismi” rinvio a Karl Popper.

C’è poi una terza reazione possibile, assolutamente minoritaria nel nostro paese. Si ispira alla teoria del pubblico amministratore elaborata da Ludwig von Mises, James Buchanan, Northcote Parkinson, William Niskanen, Jean-Luc Migué, Gerard Bélanger, Ronald Wintrobe. Essa ne studia il comportamento in quanto soggetto economico che agisce fuori dal mercato, senza cioè concorrenza nell’esercizio delle proprie funzioni e nella formazione dei propri costi. Per questo massimizza per sé l’utile monopolistico come e meglio di ogni cartello oligopolista privato. E lavora per estendere nella discrezionalità il recinto delle risorse intermediate, il numero dei dipendenti, la complessità autorigenerante delle procedure da amministrare. Questa terza reazione porta alla conclusione che il vero rimedio agli scandali non è l’uomo nuovo in Terra predicato dai savonaroliani, e nemmeno la garanzia costituzionale d’imparzialità della pubblica amministrazione e lo smascheramento del suo dirazzare ad opera di zelanti magistrati. È invece la riduzione della macchina pubblico-amministrativa alle sue funzioni essenziali, con minimo ricorso a personale e procedure internalizzate, e massimo impiego di risorse esternalizzate e sussidiarie.

Tutte le grandi riforme pubbliche di paesi avanzati divenuti iperstatalisti e inefficienti sono passate attraverso l’adozione di tale criterio: dalla Svezia alla Polonia alla Germania. I privilegi della Casta, da noi confusi con cattive prove date esclusivamente da un pessimo ceto politico, si devono invece al vecchio paradosso dei pubblici guardadighe olandesi. Allorché esse ancora di legno erano fatte, le Sette Province Unite disposero che pubblici funzionari fossero premiati per l’abbattimento di ogni singolo ratto muschiato, nemico numero uno delle tenuta delle dighe. Rapidamente, i guardadighe capirono che era meglio consentire in primavera ai ratti l’accoppiamento, invece che abbatterli in autunno. Così, per ogni coppia abbattuta ne sarebbero sopravvissuti 15, l’impiego sarebbe rimasto in eterno, e l’onere per il contribuente sarebbe salito insieme al premio ai pubblici dipendenti.

tratto da Tempi 12/2012 in edicola

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