Gennaio, il tempo dell’abbandono

Articolo tratto dal numero di gennaio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Monferrato, gennaio. Questa notte ha gelato. Alle otto di mattina il cielo stenta ancora a farsi chiaro. La porta si chiude dietro alle spalle con un tonfo profondo, nel gran silenzio delle colline. I miei passi spaccano il ghiaccio in un crepitio secco. C’è nebbia: indovino il sentiero, più che vederlo. Un boschetto di noccioli ischeletriti tende verso l’alto i rami neri, come in una preghiera. Gracchiano le cornacchie, beffarde, e il loro verso riecheggia e torna indietro nella valle.

Gennaio, è il tempo dell’abbandono. Il sole, il caldo, il vigore della vita ci hanno lasciati. Ci si ritrova, nelle campagne, tra fantasmi di alberi gelati dai cui rami pendono inerti le ultime foglie avvizzite. Erano i germogli che mi commuovevano, a marzo: e guarda, come il tempo li ha maturati e consumati e annientati.

Ogni mese dell’anno è una metafora, ogni mese è una parola che ci viene data. La parola di gennaio è: abbandono. Sembra che in questo gelo, nei tronchi spogli, qualcosa o qualcuno ci abbia lasciati per sempre. Non sanno, non possono capire nel loro candore vergine i bambini, che con il gelo giocano: a scivolare sul ghiaccio, a assaggiare allungando la lingua i fiocchi di neve. A vent’anni si cammina orgogliosi, provando quasi piacere nel morso del freddo che arrossa guance. È solo più avanti, parecchio più avanti che si comprende gennaio – quando quel freddo, quella rigidità, quell’incanutimento della terra cominciano a somigliarti.

Allora nelle piante dai rami secchi ti riconosci – se sei una madre, e i figli se ne sono andati lontano. Anche le case con le persiane serrate e le altalene immobili nei giardini ti somigliano, con le loro fila di stanze vuote.

Ci vuole un po’ di coraggio a fermarti, da sola, sull’orlo di questa vertigine. Ti verrebbe da scappare. Da rifugiarti davanti a un grande fuoco nel camino, che scotti la faccia, e nel tepore addormentarti. Dormire, come fanno i gatti in inverno, sprofondati in un torpore di letargo. Oppure bisognerebbe bere del vino denso e scuro, che colmi le vene e accenda i pensieri, in un sogno in cui giovani si sia ancora. In un limbo in cui non sapere, non ricordare quella lama che taglia, là fuori. Che non è il freddo, ma la percezione fisica di un abbandono.

Ciascun mese però porta agli uomini anche un dono. Il regalo di gennaio è vedere il compimento della morte – la nebbia che ti ruota attorno come una nuvola, o come la folla delle migliaia di uomini che da queste colline se ne sono andati – e nello stesso tempo sapere nel tuo corpo, per la prima volta, che per vivere davvero la morte occorre attraversarla.

Passaggio angusto, stretto, buio: bisognerà abbassarsi, ingobbire le spalle, chinare il capo. Alla fine del pertugio però, là dove temi ci sia solo il nulla, troverai vita, ancora: infinita, splendente, come mai l’hai immaginata.

Occorre un umile coraggio, da vecchi. L’umiltà di farsi semi, sepolti nella terra che sa di concime. («L’Io esiste perché possa abdicare», ha scritto Lewis). Ma l’abbandono non è vero, è una apparenza, una prova. Nel fondo estremo del freddo e del buio il seme cede e si spacca. Germoglierà nel sole pallido, tenero e audace, di nuovo.

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