Gelo demografico italiano. «Ma i figli sono un bene pubblico»

Risparmi, case, aziende. La denatalità incide su tutto. «Ma i nostri politici se ne rendono conto?». Intervista all'economista Matteo Rizzolli

«È un tema sottovalutato e incompreso», dice a Tempi Matteo Rizzolli, professore associato di Economia alla Lumsa e docente di Economia e famiglia al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Roma. Stiamo parlando di “inverno demografico” all’indomani delle statistiche Istat che hanno certificato una nuova “gelata” per la natalità nel nostro Paese.

I numeri del nuovo Rapporto dicono che c’è stato un calo di 20 mila nati, che l’età del parto è salita a 31,4 anni e che gli abitanti del Belpaese sono scesi sotto i 59 milioni. Secondo l’Istituto di statistica nel 2021 avremo meno di 40 mila bambini che sono, al momento, 1,17 per donna.

Rizzolli, per qualche giorno si tornerà a parlare del problema demografico italiano, poi il tema tornerà ad inabissarsi fino al prossimo Report dell’Istat?

Purtroppo è un problema di capitale importanza che rimane sottovalutato e incompreso. Non mi è ancora chiaro se sono davvero così difficili da capire le implicazioni che ha un tale “inverno” oppure, soprattutto da parte della nostra classe dirigente, ci si è ormai arresi a ritenere la situazione disperata, tanto da cercare vanamente di nasconderla sotto il tappeto. Leggo persino i commenti di noti economisti che derubricano la questione della denatalità a un fatto frutto di scelte individuali insindacabili, forse non comprendendo bene quanto queste scelte abbiano ripercussioni sull’intera società e sulla sostenibilità del nostro sistema economico.

Si sperava che con il lockdown dello scorso anno si potesse registrare un aumento dei nati, ma così non è stato.

In Germania c’è stato, in Italia no. Abbiamo registrato un peggioramento rispetto a una situazione già gravissima. Ma il problema non è solo il lockdown. La denatalità è un problema globale: persino l’India ha due figli per donna, persino la Turchia. A parte l’Africa, tutto il mondo sta facendo i conti con questo declino del numero dei nati.

E dentro questo grande trend c’è quello italiano che spicca per numeri negativi.

Esatto. I nostri politici se ne rendono conto? Simulando l’evoluzione della popolazione si può facilmente calcolare a quanto ammonterà la popolazione italiana tra 100 anni. Senza immigrazione, passeremo nel giro di un secolo da circa 60 milioni di italiani a meno di 12. Questo significa un paese depopolato, intere zone senza abitanti, periferie come quella di Detroit dove le case vengono abbattute perché nessuno ci abita.

È un destino ineluttabile?

Al contrario, qualcosa si può fare, così come hanno fatto altri paesi – penso alla Germania – che dieci anni fa aveva numeri peggiori dei nostri e ora li ha migliori della media europea. Quel che voglio dire è che si possono mettere in campo politiche per migliorare la situazione. Se non possiamo arrestare il trend, almeno possiamo provare a gestire questo calo così rapido e marcato.

Ci aiuti a capire le ripercussioni a livello sociale ed economico di questo “inverno”.

Per quanto riguarda la sfera privata, pensiamo solo alla questione del risparmio. Si dice, ed è vero, che il nostro sia un Paese di grandi risparmiatori. Questo risparmio, nel 60 per cento dei casi, è investito nell’abitazione. Ma se un domani nessuno avrà più bisogno di una casa, cosa accadrà? Succederà che il suo valore crollerà. Pensiamo anche alle aziende e alla difficoltà che incontreranno di fronte a un mercato sempre più piccolo con una domanda sempre più ridotta. Per non parlare dell’innovazione, con aziende con personale sempre più anziano e meno propenso a fare i conti con questo aspetto.

C’è poi la dimensione pubblica.

Sì, il sempre citato problema del debito del nostro Paese. È chiaro che un Paese in cui il Pil non cresce, il debito diventa insostenibile. E come può l’Italia crescere se diminuisce la sua popolazione? Inoltre anche la spesa sociale aumenterà: certo, spenderemo meno per la scuola, ma spenderemo molto di più per le pensioni e la sanità. Da ultimo cito solo la questione delle infrastrutture, oggi pensate per 60 milioni di italiani. Se un domani diventassimo la metà o un terzo, come le manterremmo?

In suo articolo su Domani lei ha scritto che col Pnrr si è persa l’occasione per intervenire.

È stata senz’altro un’occasione persa: sulla natalità c’è solo l’investimento previsto in asili nido pubblici. In altri paesi si sono utilizzati i soldi del Pnrr per liberare risorse da investire sulle politiche familiari. Da noi assistiamo a scelte incomprensibili che ci fanno tornare al punto da cui siamo partiti: non si comprende il problema o si fa finta di non vederlo. Si pensi all’assegno unico, che è un buon passo avanti ma fatto con poche risorse aggiuntive e tutte stanziate prima del Pnrr e non è certo la rivoluzione di cui ci sarebbe bisogno. D’altra parte invece si sono trovate risorse per allargare la no tax area dei pensionati o finanziare la ristrutturazione delle villette.

E invece?

E invece si poteva fare un assegno davvero universale per favorire tutte le famiglie – e non solo quelle a basso reddito – che si assumono il compito di crescere la nuova generazione. D’altronde i figli sono un bene pubblico: i costi sono sostenuti dalle famiglie ma i benefici ricadono su tutti i cittadini.

Foto Ansa

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