Francesco Saverio, tra gli avventurieri il più grande

Nato in Navarra il giorno sette del mese di aprile dell’anno millecinquecentosei, quinto dei cinque figli d’una famiglia nobile che di lì a poco avrebbe perso ricchezze e potere per il conflitto che i navarrini, alleati ai francesi, persero con la Castiglia. Francesco essendo ragazzo non prese parte all’assedio di Pamplona, lo avesse fatto, avrebbe avuto modo di sapere d’un tale, basco, tredicesimo di tredici tra fratelli e sorelle, di nome Ignazio da Loyola, che, schierato nell’esercito avversario, ebbe una gamba fracassata e la soddisfazione della vittoria.

Studente di teologia a Parigi dal millecinquecentoventicinque e sedotto dalla brezza di scetticismo che soffiava sulla capitale francese, quasi una nuova Atene, conosce quelli che saranno gli amici di tutta la vita: il maestro Juan de la Pena, il compagno di camera Pietro Favre e il quarantenne zoppicante, Ignazio, che di lui dirà essere stato la creta più dura da modellare.

Il quindici agosto dell’anno millecinquecentotrentaquattro, sette amici, tra cui Francesco, pronunciano il voto solenne che segna l’inizio della compagnia di Gesù, che sarà riconosciuta definitivamente dal Papa il ventisette settembre del milletrecentoquaranta.

Ma Saverio non è presente; è partito per il Portogallo lungo una via impervia in un viaggio rischioso e difficile che dura più di tre mesi. Lo attendono le Indie; il sette aprile del millecinquecentoquarantuno Francesco lascia l’Europa, e non la rivedrà mai più. Sarà in Mozambico dopo due mesi e mezzo di navigazione soffrendo per il mare e sopportando gravi disagi per quaranta giorni lungo la costa della Guinea, sia per le grandi calme sia perché il tempo non ci ha favorito. Da lì in Kenya, quindi nella poverissima Socotra, non lontano dal golfo di Aden, dove incontra una piccola comunità di cristiani, poveri e perseguitati, che resteranno per sempre nel cuore del santo. Infine, il sei maggio del 1542 giunge in India, al centro della costa occidentale, nella città di Goa.

«I disagi di una così lunga navigazione, la preoccupazione delle molte infermità spirituali, non potendo un uomo curare le proprie, la dimora in una terra tanto soggetta a peccati di idolatria e così difficile da abitare per il gran caldo che vi è in essa, sono tutti disagi che, se si accettano per Colui per il quale dobbiamo prenderli, costituiscono una grande refrigerio e materia di molte e grandi consolazioni. Credo che coloro i quali gustano la croce di Cristo nostro Signore, si riposino giungendo a queste tribolazioni e muoiano quando da esse fuggano o se ne trovino fuori. È peggio della morte vivere, lasciando il Cristo, dopo averLo conosciuto, per seguire le proprie opinioni o inclinazioni! Non vi è una pena uguale a questa. E al contrario, quale riposo vivere morendo ogni giorno, per andare contro il nostro proprio volere, cercando “non quae nsotra sunt, sed quae Jesu Christi”! Per amore e servizio di Dio nostro Signore vi prego, carissimi fratelli, di scrivermi molto a lungo circa tutti i membri della Compagnia, poiché in questa vita non spero più di vedervi “faccia a faccia”, ma soltanto “per enigmata” e cioè per lettera. Non negatemi questa grazia, pur non essendone io meritevole: ricordatevi che Dio nostro Signore fece voi meritevoli affinché io, per mezzo vostro, sperassi e ottenessi gran merito e conforto.
Da Goa, ai 20 di settembre dell’anno 1542
Il vostro inutile fratello in Cristo
Franciscus de Xabier»

Tra il millecinquecentoquarantadue e il millecinquecentoquarantanove fa avanti indietro tra la costa orientale e la costa occidentale dell’India, ma ha anche modo di spingersi a Malacca e poi alle Molucche e da lì tornare a Goa

«Dio nostro signore sa quanto la mia anima si consolerebbe di più nel vedervi che non nello scrivere questa lettera così malsicura a causa della distanza esistente fra Roma e questi luoghi. Ma poiché Dio nostro Signore ci tiene divisi in posti tanto lontani e noi siamo così simili nell’affetto e nello spirito, se io non m’inganno la distanza materiale non rappresenta certo un motivo di disamore o di dimenticanza per coloro che si amano nel Signore. Mi sembra infatti che noi ci vediamo quasi di continuo, anche se non possiamo più intrattenerci familiarmente come eravamo soliti. Ed è questa una grazia che è insita in ogni grande ricordo degli eventi passati, qualora essi siano fondati in Cristo e che ha quasi la capacità di sopperire agli effetti delle conoscenze sensibili. Questa presenza spirituale, che così costante io ho di tutti i membri della Compagnia, è più un merito vostro che mio in quanto i vostri continui e bene accetti sacrifici e le orazioni che per me, misero peccatore, voi fate sempre, sono quelli che suscitano in me tanto ricordo. In tal modo siete voi, miei carissimi fratelli in Cristo, ad imprimere nel mio animo il vostro costante ricordo, e se la memoria che suscitate in me è grande, confesso che ancora più grande è quella che voi avete di me. Dio nostro Signore voglia concedervi per me il premio che meritate per questo, dato che io non posso pagarvi in altro modo se non confessando semplicemente la mia incapacità a compensare la vostra carità, restando indelebile nel mio animo la conoscenza del grande obbligo che ho verso tutti i membri della Compagnia
Da Cochin, ai 27 di gennaio del 1545.

Il minimo vostro figlio in Cristo
Franciscus»

E ancora.

«Per amore di Cristo N.S. e della Sua santissima Madre e di tutti i Santi che stanno nella gloria del Paradiso, vi prego, carissimi Fratelli e Padri miei, di avere un particolare ricordo di me per raccomandarmi di continuo a Dio, dato che vivo con tanto bisogno del Suo aiuto e favore. Quanto a me, proprio per la grande necessità che ho del vostro costante soccorso spirituale, ho avuto modo di sperimentare più volte come, grazie alla vostra preghiera, Dio N.S. mia abbia aiutatoe protetto in molte tribolazioni del corpo e dello spirito. E affinché io non mi dimentichi giammai di voialtri, sia mediante un assiduo e particolare ricordo sia per mia grande consolazione, vi faccio sapere, carissimi fratelli, che dalle lettere che mi avete scritto ho ritagliato i vostri nomi, vergati dalla vostra stessa mano e, insieme al voto che feci della mia professione, li porto sempre con me per la consolazione che ricevo. Per prima cosa rendo grazie a Dio e poi a voialtri, Fratelli e Padri dolcissimi, poiché Dio vi ha creato in modo tale da consolarmi tanto nel portare i vostri nomi. E non dico di più dato che presto ci vedremo nell’altra vita con maggior riposo che non in questa.
Da Amboina ai 10 di maggio, anno 1546
Il vostro minimo fratello e figlio
Franciscus»

E infine.

«E affinché sappiate quanto siamo lontani corporalmente gli uni dagli altri, accade che, quando in virtù della santa obbedienza voi da Roma date un comando a noi che stiamo nelle Molucche o a noi quando saremo in Giappone, non potete aver risposta di ciò che comandate in meno di tre anni e nove mesi. E affinché sappiate che è così come io vi dico, ve ne dò la ragione. Quando da Roma ci scrivete in India, prima che riceviamo le vostre lettere in India passano otto mesi e dopo che abbiamo ricevuto le vostre lettere, prima che dall’india le navi partano per le Molucche, fra andare e tornare in India, impiega ventun mesi e ciò con il tempo molto buono.E prima che dall’India la risposta parta per Roma trascorrono otto mesi: e ciò s’intende quando si naviga con tempo molto buono, perché se succede qualche contrattempo, molte volte prolungano il viaggio per più di un anno.
Da Cochìn, ai 20 di gennaio del 1548
Il più piccolo servo dei servi della Compagnia del nome di Gesù.
Franciscus»

Il quindici di aprile del millecinquecentoquarantanove parte per il Giappone, dove arriva quattro mesi più tardi, il quindici agosto 1549, per restarci fino al novembre del 1551.

«Termino così senza poter finire di scrivere il grande amore che provo per tutti voi in generale e in particolare; e se in questa vita presente si potessero vedere i cuori di coloro che si amano in Cristo, credete, Fratelli miei carissimi, che nel mio voi vi vedreste chiaramente. Es e non vi riconosceste, mirandovi in esso, sarebbe perché io vi tengo in tale stima e voialtri, stante la vostra virtù, vi tenete in tale disprezzo che, a causa della vostra umiltà, sareste impediti di vedervi e conoscervi in esso, e non certo perché le vostre immagini non siano impresse nella mia anima e nel cuore. Molto vi supplico affinché vi sia tra voi un vero amore, non lasciando germogliare amarezze nell’animo. Trasformate una parte del vostro fervore nell’amarvi gli uni con gli altri e una parte del desiderio di soffrire per Cristo, in un patire per Suo amore, vincendo in voialtri tutte quelle ripugnanze che non lasciano crescere questo amore. Voi sapete infatti ciò che disse Cristo: che in questo Egli conosce i Suoi, se si ameranno gli uni con gli altri.
Dio nostro Signore ci faccia sentire dentro le nostre anime la Sua santissima volontà e la grazia di adempierla perfettamente.
Da Kagoshima, ai 5 di novembre dell’anno 1549
Il tutto vostro carissimo fratello in Cristo
Francisco»

Nel febbraio 1552 è di nuovo a Goa, pronto per un nuovo viaggio. Il diciassette aprile 1552 parte per la Cina, dove non metterà mai piede.

«Se per caso durante quest’anno io non andassi in Cina, non so se partirò per il Siam con Diogo Vaz de Aragao, con una sua giunca che ho comprato qua, per poter andare dal Siam con un’ambasciata [del Siam] dal re della Cina. Se andassi nel Siam, scriverò a Vostra Grazia tramite Emanuele de Chaves affinché se in qualche modo potesse scrivermi nel Siam, mi scriva ciò che intendete fare nel prossimo anno e se andrà con l’ambasciata oppure no, affinché noi ci si possa incontrare a Ke-moi o in qualche altro porto del Kwantung; e piaccia a Dio che ciò avvenga dentro la Cina, perché io spero che quest’anno andrò laggiù ad aspettarlo. Se in questa vita non ci vedremo più, Dio nostro Signore, per la Sua misericordia, ci riunisca nella gloria del paradiso, dove noi per sempre ci vedremo senza fine.
Scritta in Sancian ai 22 di ottobre dell’anno 1552
Francisco»

Fermo a Sancian, davanti a Canton, si ammala e la notte del tre dicembre 1552, muore assistito fino alla fine dal giovane e fedele amico Antonio.

Dieci anni di missione, cinque dei quali trascorsi nei porti o in nave; migliaia di chilometri, trentamila battesimi, una comunità di millecinquecento cristiani sorta dal nulla in Giappone, che resisterà secoli, attraversando persecuzioni, l’assenza dei sacerdoti e la totale clandestinità.
E i suoi primi amici, lontani, dall’altra parte del mondo. I loro nomi cuciti sul cuore, i loro volti penetrati in esso.

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