Fate i bravi, bambini, o arriva l’ADHD. Indagine su una malattia ancora sconosciuta che ha già sconvolto la vita a milioni di giovani

Due inchieste riaprono interrogativi inquietanti sul disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Che senso ha bombardare così tanti bambini con farmaci devastanti?

«Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, o Adhd, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo. Esso include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività. (…) Non è una normale fase di crescita che ogni bambino deve superare, non è nemmeno il risultato di una disciplina educativa inefficace, e tanto meno non è un problema dovuto alla “cattiveria” del bambino. L’Adhd è un vero problema, per l’individuo stesso, per la famiglia e per la scuola, e spesso rappresenta un ostacolo nel conseguimento degli obiettivi personali. È un problema che genera sconforto e stress nei genitori e negli insegnanti i quali si trovano impreparati nella gestione del comportamento del bambino. (…) È necessario che tutte le persone, che interagiscono con i bambini con Adhd, sappiano vedere e capire le motivazioni delle manifestazioni comportamentali di questi ragazzini, mettendo da parte le assurde e ingiustificate spiegazioni volte ad accusare e ferire i loro genitori, già tanto preoccupati e stressati per questa situazione» (Dal sito dell’Aidai, Associazione italiana disturbi attenzione e iperattività, le parole sottolineate sono in neretto nel testo originale)

«Signora, suo figlio non riesce a concentrarsi, non sta mai fermo, disturba. Se non riesce a gestire il problema, deve andarsene in un’altra scuola». Zache aveva solo 3 anni (tre) quando Traceye, sua madre, si ritrovò scaricata in modo brusco e sbrigativo dall’asilo di Miami. Erano passate appena due settimane dall’inizio dell’inserimento e le maestre avevano convocato una riunione apposta per sbarazzarsi di lei e del suo bambino ipercinetico. Piange ancora, mamma Traceye, mentre racconta davanti alla telecamera lo smarrimento che la travolse al pensiero che il piccolo Zache potesse davvero soffrire di problemi di «salute mentale». Quasi non riesce a pronunciarle quelle due paroline suggerite dalle maestre. Mental health. E ricorda con un misto di sollievo e turbamento quando i dottori «riuscirono a diagnosticare facilmente che Zache aveva l’Adhd». In tutto impiegarono «due minuti», dice la donna come tentando di dare un’aria di naturalezza a un’idea, in fondo, un po’ pazzesca.

Pazzesca perché la vita di suo figlio, in quei due minuti striminziti, cambiò per sempre. Zache ha dieci anni adesso, mentre la madre rievoca la sua vicenda. Dal giorno della diagnosi è sempre stato sotto stimolanti, e grazie a quelle pillole è diventato un problema più gestibile per le maestre. Peccato solo che il suo fisico metabolizzi le medicine troppo rapidamente. Tocca aggiustare continuamente la terapia, altrimenti gli effetti collaterali diventano incontrollabili. Mamma Traceye li descrive come comportamenti quasi psicotici. Zache scoppia a piangere senza motivo, si sbellica dalle risate per niente. Sono cose che fanno paura. «Guardarlo negli occhi e non vedere tuo figlio».

È una delle testimonianze raccolte da Stella Savino in un film-documentario sul “disturbo da deficit di attenzione e iperattività”, meglio noto sotto l’acronimo inglese Adhd (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder). Prodotto nel 2012 e proiettato questa estate in una manciata di cinema italiani, Adhd – Rush Hour è un viaggio tra scuole, laboratori, studi medici, aule universitarie e case di comuni famiglie per raccontare “dal di dentro” quella che negli Stati Uniti è ormai un’autentica calamità sanitaria. Una specie di epidemia sommersa che pare destinata a venire a galla all’infinito. Con numeri ed effetti collaterali devastanti.

Da tempo la comunità scientifica e educativa si domanda se l’Adhd sia davvero un “disordine dello sviluppo neuropsichico” o non sia invece – per sintetizzare le obiezioni del partito ultrascettico – un modo elegante di risparmiare agli adulti (genitori, insegnanti, medici) la fatica di comprendere una gioventù sempre più disadattata, mascherandone il disagio dietro qualche sintomo sufficientemente generico. Un dubbio tremendo che però non sembra aver minimamente dissuaso la società americana dal risolvere il problema nel più yankee dei modi: raffiche di diagnosi e bombardamenti a tappeto di psicofarmaci. Secondo il Center for Disease Control and Prevention (Cdc), negli Stati Uniti circa l’11 per cento dei minori in età scolare riceve una diagnosi di Adhd, addirittura il 20 per cento dei ragazzi nelle high school. Circa i due terzi di loro sono sotto terapie a base di stimolanti. Si tratta di milioni di bambini e adolescenti. E il trend non accenna a rallentare neanche di fronte al moltiplicarsi degli allarmi. Anzi, negli ultimi anni, grazie alla pioggia di diagnosi, l’incidenza dell’Adhd sulla popolazione dei giovani americani risulta essere raddoppiata (a metà degli anni Duemila era ancora al 5 per cento), mentre il “contagio” sembra coinvolgere sempre più adulti: dal 2008 al 2012, secondo i calcoli di Express Scripts, società leader nella gestione di prescrizioni mediche, sarebbero aumentati di oltre il 50 per cento i maggiorenni statunitensi che prendono stimolanti contro l’Adhd (+100 per cento quasi nella fascia 26-34 anni).

Quelle «due personalità differenti»
Cosa significa che ci siano nel mondo 11 milioni di ragazzini sottoposti a cura farmacologica per una malattia che qualche anno fa era ancora poco più di un’ipotesi accademica? Si propinano loro molecole come metifenidato e amfetamina, non aspirine. Pillole che hanno effetti collaterali spaventosi: oltre alla dipendenza, possono causare depressione, perdita di appetito e di peso, disfunzioni sessuali, addirittura tendenze suicide. Stiamo allevando una generazione di “drogati”?

L’indagine di Stella Savino è cominciata nel 2008, poco dopo la decisione da parte dell’Aifa di reintegrare il Ritalin nella terapia per l’Adhd, quando questi interrogativi hanno acceso per un attimo il dibattito pubblico nel nostro paese. Una delle storie più impressionanti raccolte in Adhd – Rush Hour è quella di Armando, studente superiore romano di 19 anni che nei suoi 9 anni di cura farmacologica ha imparato a controllare lo stimolo interrompendo la terapia «nei week-end e d’estate, quando la scuola non c’è». La diagnosi di Adhd per Armando infatti è arrivata quando le difficoltà a scuola cominciavano ad apparire insormontabili. Le pagelle parlavano di «continuo conflitto con gli adulti», problemi di condotta e di comportamento. Mentre adesso le cose vanno meglio: «Quando prendo le pasticche – racconta – sono molto più freddo, molto più contenuto… come se non fossi io in realtà». In effetti, «quello è l’unico problema, che ti si creino due personalità differenti».

E pensare che è così facile beccarsi una diagnosi di Adhd. In base all’ultima edizione del Dsm, Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorders, la bibbia dei medici della psiche, basta manifestare 6 dei 18 sintomi elencati dagli esperti per rientrare nella casistica (vedi per esempio l’elenco dei sintomi pubblicato qui, ndr). «Ma se non avete visto la lista, datele un occhio. Probabilmente vi metterà in agitazione. Quanti di noi possono dire di avere difficoltà organizzative o una tendenza a perdere gli oggetti? Quanti dimenticano spesso le cose o sono distratti o non riescono a fare attenzione ai dettagli? In base a criteri così soggettivi, l’intera popolazione degli Stati Uniti potrebbe avere i requisiti per l’Adhd». È il dottor Richard Saul a esserne convinto. Medico a Chicago, professore di Neurologia comportamentale e dello sviluppo con cinquant’anni di esperienza accademica e clinica alle spalle, membro della American Academy of Pediatrics, dell’American Academy of Neurology e della Society for Behavior and Development, Saul ha scritto un libro per spiegare come anche lui, che negli anni Settanta aveva creduto nell’Adhd perché «sembrava spiegare i problemi di attenzione che affliggevano tanti bambini», col passare del tempo sia «giunto alla conclusione che quei sintomi in realtà avevano un’intera gamma di cause sottostanti che venivano ignorate», e venivano ignorate proprio per via dell’esistenza di quella diagnosi prêt-à-porter.

Problemi di vista e di udito, mancanza di sonno, carenza di ferro, abuso di droghe e alcol, allergie, depressione, bipolarismo, schizofrenia, problemi genetici come la sindrome di Tourette, disturbi dell’apprendimento come la dislessia: nel suo volume, uscito a marzo in lingua inglese, Saul racconta un caso personalmente affrontato per ognuna di quelle che lui stesso negli anni ha individuato come le vere cause dei sintomi dell’Adhd (decine di malattie in gran parte, non a caso, indicate dal Dsm come “comorbid” con l’Adhd). Esperienze sul campo accomunate da una diagnosi iniziale – regolarmente smentita – di Adhd, e dalla conferma che l’unico concreto effetto a lungo termine delle terapie a base di stimolanti (oltre magari a migliorare per un semestre la pagella) è di mascherare, quando non aggravare, le cause reali del disagio. Il neurologo di Chicago invita i colleghi a scavare, ipotizzare, testare, implicarsi con il paziente, faticare per trovare la vera ragione di quei sintomi e risolverla. Insomma per Saul “l’Adhd non esiste”, come recita il titolo del libro. O comunque non è la piaga onnivora scolpita nell’immaginario collettivo.

Ma perché inventare una cosa così potenzialmente distruttiva e poi lasciarsela sfuggire di mano? «Temo che un’intera generazione di americani non sarà in grado di concentrarsi senza ricorrere a queste medicine; Big Pharma comprensibilmente non è altrettanto preoccupata», ha notato maliziosamente Richard Saul presentando le sue tesi al Time. Anche Stella Savino registra un accenno un po’ “psico-scettico” nel suo film. È di un pasionario che ricorda la leggendaria battuta consegnata a Fortune nel 1976 dall’allora boss della Merck, Henry Gadsen: noi signori del farmaco siamo frustrati perché possiamo vendere medicine solo ai malati, disse più o meno Gadsen, il nostro sogno è riuscire a venderle a tutti, come i chewing gum.

Semplificazioni dietrologiche? Forse. Comunque sia, sulla base della sua imponente esperienza clinica Saul attesta l’esistenza di un forte “cultural bias” tra i primi fattori dell’epidemia di Adhd. È il pregiudizio culturale che emerge per esempio nel caso di Bhavik, un bambino di 9 anni di origini indiane targato Adhd dagli insegnanti perché disattento e casinista in classe, ma che Saul scoprirà essere semplicemente troppo “gifted”, troppo dotato per i banali problemini di matematica di terza elementare. È la strana angoscia che «porta troppi genitori a correre dallo psichiatra con i propri figli» davanti alle prime vere difficoltà. Ed è l’ansia da prestazione di Greg, studente di college suggestionato dal rendimento accademico ottenuto dai compagni grazie agli stimolanti “facili”, che si presenta dal dottor Saul buttando là un «non riesco a concentrarmi, penso di avere l’Adhd», ottenendo solo la deludente offerta di un test più approfondito. «Non può semplicemente farmi qualche domanda e scrivere la prescrizione?», sbotta Greg seccato dalla cautela del neurologo.

L’Italia e il suo minimo di garanzia
«Gli stimolanti sono letteralmente spacciati come amfetamine nei college statunitensi», spiega a Tempi Stella Savino, persuasa che l’abuso sia strettamente «legato al concetto di performance: agli studenti americani si arriva a chiedere ormai punteggi irraggiungibili con mezzi solamente naturali». Ed è una tendenza tanto più grave, secondo la regista di Adhd – Rush Hour, in quanto coinvolge sempre più aggressivamente e con sempre meno scrupoli i bambini, che «non sono in grado di scegliere per sé». L’epidemia di Adhd «è una conseguenza degli stili di vita che abbiamo adottato. Quando ero piccola io, non era una priorità dei miei genitori riempirmi la vita di cose da fare. C’era spazio per la noia nelle mie giornate. Io passavo ore magari a fissare nel vuoto fuori dalla finestra e a sognare. Oggi probabilmente mi avrebbero diagnosticato qualcosa». È una società che iperstimola i suoi figli ma poi non ha tempo per prendersene cura, «così diventano un problema». Di qui l’idea di dare quel sottotitolo al documentario, Rush Hour, l’ora di punta, l’ora in cui trionfa la fretta e tutto diventa un fuggi-fuggi. «Il problema del tempo che va sempre più gestito e ottimizzato ha sconvolto tutti i nostri normali e sani ritmi di vita. Restavano solo i bambini a fermare il tempo, ora nemmeno più loro».

È vero, in Italia c’è ancora quello che Stella Savino definisce «un minimo di garanzia». Proprio per evitare derive “americane”, l’Istituto superiore di sanità ha creato un registro per monitorare i pazienti in terapia farmacologica per l’Adhd. A maggio 2014 gli “arruolati” erano meno di tremila, del resto secondo le poche stime disponibili la prevalenza del disturbo per la popolazione italiana nella fascia di età compresa tra i 6 e i 18 anni è ancora intorno all’1 per cento. L’iscrizione al registro dell’Iss sarebbe obbligatoria «ma sono tantissime le famiglie che ottengono gli stimolanti di fatto fuori controllo, sfruttando la compiacenza delle Asl disposte a chiudere un occhio rispetto alle linee guida nazionali, oppure andando direttamente a prendere i farmaci all’estero». In ogni caso, dopo il suo viaggio nell’Adhd tra le due sponde dell’Atlantico, la documentarista ha capito che anche in questo «come in molti altri aspetti sociali abbiamo una tendenza a rincorrere gli Stati Uniti». Il trend iperstimolazione-sedazione si afferma anche qui, «e per come si stanno evolvendo la famiglia e la società – conclude Stella Savino – io personalmente non vedo possibilità di inversione».

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