Eterne piaghe d’Egitto

Viaggio nel “paese mosaico” dove convivono culture ed etnie diverse e dove l’ideologia dei Fratelli musulmani ha dato libero sbocco a sentimenti islamisti

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Il Nilo non è un fiume ma una divinità. Nell’Alto Egitto, da Assuan fino ad Asyut passando per i villaggi che lo costeggiano, è ancora opinione diffusa tra la gente. In quelle terre immerse nelle piantagioni di mais, tra proprietari terrieri, fellahin e bambini che si tuffano nudi nelle pozze di acqua e fango mentre le madri lavano i panni sporchi, la civiltà non è ancora arrivata, tantomeno il progresso, l’istruzione, le belle idee, le istituzioni. I piccoli soldati di Dio o di Allah sono in realtà semplici “ragazzi di vita” spensierati con i calzoni lunghi e la canottiera bianca che passano intere giornate a giocare all’aria aperta. Ci sono solo asini che tirano vecchi carretti e barche a remi che si aggirano ciclicamente seguendo un corso naturale. Siamo di fronte ad una società tradizionale non lontana dalle tesi di Georges Dumézil, filologo francese e grande studioso della cultura indoeuropea. Si vive tutti insieme, cristiani e musulmani, notabili e agricoltori, vecchi e giovani, oratores, bellatores e laboratores, col sole e la luna, i loro colori, che dettano la ritmica della quotidianità. Gli stessi antichi egizi del resto consideravano il Nilo, al pari del dio Ra, come una via tra la morte e l’oltretomba in cui la sponda orientale era il luogo di nascita e crescita, quella occidentale invece rappresentava il punto di sepoltura. Il sistema valoriale di questi popoli così come l’armonia sociale sono rimasti invariati per secoli con qualche episodio di disgregazione sociale. Il primo risale al primo Ottocento quando il padre fondatore dell’Egitto moderno Muhammad Ali, un giovane ufficiale albanese mandato dagli Ottomani dopo il ritiro delle truppe napoleoniche, introdusse la leva militare obbligatoria che allontanò molti giovani dal lavoro dei campi. Il secondo si ricollega alle origini delle primavere arabe quando nel 2009 Barack Obama in visita al Cairo pronunciò uno storico discorso che includeva nella nuova strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente un’apertura ai Fratelli musulmani, potente organizzazione islamica radicale ufficialmente bandita dalla legge egiziana, che tre anni dopo riuscirà ad imporsi con l’elezione di uno dei suoi esponenti di punta: Mohamed Morsi.

Se prima la religione sconfinava col misticismo, con l’ascesa del “governo islamico” diventava uno strumento di cooptazione e di coercizione. A pagarne le conseguenze non furono le città ma le periferie dell’Alto Egitto popolate da poveri, emarginati e analfabeti. È lì che l’ideologia della Confraternita, portatrice di nuovi codici etici ed estetici, riuscì a trovare terreno fertile ed espandersi a macchia d’olio. A Delga, una cittadina di 150 mila abitanti situata nel governatorato di Minya, tra il 3 e il 4 giugno del 2013, un mese prima del colpo di Stato di Abd Al Fattah al-Sisi, si è registrato uno degli episodi più violenti della storia recente.

A raccontarlo a Tempi è uno dei suoi protagonisti, padre Ayoub Youssef, parroco copto cattolico, che ci riceve insieme alla sua scorta armata nel luogo della profanazione: un edificio distrutto nel cuore della cittadina, a pochi metri dalla chiesa di San Giorgio, affianco alla moschea, che fino a qualche anno fa era un centro scolastico e ricreativo per giovani e adulti di tutte le confessioni religiose. «La vita era tranquilla da queste parti quando erano i militari a governare l’intero paese, noi cristiani siamo una minoranza ma i nostri vicini ci hanno sempre considerati loro fratelli, poi improvvisamente tutto è cambiato quando i Fratelli musulmani hanno conquistato il potere – racconta padre Youssef – quella notte di giugno mi trovavo al terzo piano nella mia stanza, erano le 9 di sera, ho sentito dei rumori, poi delle grida, cinquanta islamisti armati di mazze e di fucili stavano assaltando l’edificio, feci in tempo a nascondermi, intorno a me c’erano le fiamme, tutto aveva preso fuoco».

Costeggiare il Nilo
La mattina seguente l’intero edificio, appena inaugurato dopo tanti sacrifici, si era trasformato in un cumulo di macerie e soltanto oggi sta riprendendo forma grazie al sostegno economico dell’esercito e di alcune associazioni tra cui quella francese Sos Chrétiens d’Orient. Ma quello di Delga rimane bene o male un episodio piuttosto isolato poiché i copti egiziani seppur minoritari – ufficialmente se ne contano 15 milioni in tutto il paese – sono riusciti ad imporsi socialmente e politicamente. Pertanto questa comunità, insieme ai turisti, diventa un vero e proprio bersaglio dei gruppi terroristici – come ad Alessandria d’Egitto e ad Al Arish, nel Sinai – quando si vuole colpire indirettamente il mondo occidentale, vendicare la “persecuzione” dei Fratelli musulmani o delegittimare il governo nazionale sostenuto appunto dal Patriarcato.

Ma per comprendere la dialettica tra politica e religione che da decenni anima il paese diventa necessario salire sul primo treno che costeggia il Nilo, seguendo il corso dell’acqua, in direzione di uno dei più grandi formicai del mondo: Il Cairo. Aveva ragione Ibn Khaldun (1332-1406), massimo storico e filosofo del Maghreb, quando invitava i suoi seguaci a viaggiare nella capitale egiziana per conoscere l’islam. Metropoli sconfinata dominata dalla necropoli di Giza, dove si ergono moschee, minareti e madrasse, nel culto della sapienza da shaykh, ulema, e danzatori sufi, ma soprattutto sede dell’Università Al Azhar considerata uno dei principali centri d’insegnamento del sunnismo. È dalle sue cattedre, a partire dal X secolo fino ai giorni nostri, che si è costruita, nel quadro di un equilibrio tra potere temporale e spirituale, la specificità identitaria egiziana. Per quanto Gamal Abdel Nasser fu uno dei più grandi leader a servire la causa panaraba e l’emancipazione dei paesi appartenenti al cosiddetto “Terzo Mondo”, in realtà fu il prosecutore di una tradizione politica chiamata “faraonismo”. Situato a metà tra il Mediterraneo, l’Africa e il Medio Oriente, l’Egitto è de facto un mosaico in cui convivono, da Assuan fino ad Alessandria, culture ed etnie diverse che conservano una radice comune antichissima: l’unificazione delle “Due Terre” (3150 a.C). L’Egitto non è né arabo né africano, ma egiziano.

Petrodollari sauditi
Sul piano geopolitico l’amministrazione Obama era riuscita nell’impresa di tenere uniti i Fratelli Musulmani all’Arabia Saudita grazie all’obiettivo comune di rovesciare Bashar Al Assad in Siria, alleato dell’Iran, tuttavia con l’elezione di Donald Trump gli orizzonti della Casa Bianca sono cambiati: il primo viaggio nel Vicino e Medio Oriente del nuovo presidente statunitense ha rinsaldato l’alleanza Riyad-Washington-Tel Aviv in chiave anti-sciita e ha rinnovato i forti legami con Al-Sisi proprio per sottolineare la rottura con la linea dei democratici che in passato avevano puntato su Morsi, sostenuto sua volta dal Qatar, il piccolo emirato che è stato scaricato da tutti i paesi del Golfo.

In questa meccanica di alleanze l’Egitto ha scelto di entrare nella sfera di influenza saudita, tanto da avergli ceduto di recente le isole strategiche di Tiran e Sanafir in cambio di una montagna di petrodollari. Gli stessi petrodollari che ora rischiano di influenzare le scelte del governo del Cairo e di conseguenza quelle degli osservatori della legge islamica che siedono sui banchi dell’università-moschea di Al Azhar. Dal canto loro gli azhariti hanno preso posizione contro il jihadismo, ma sarà dovere del “presidente credente” Al Sisi, il quale ha riproposto il modello autoritario, nazionalista e intollerante verso gli estremismi di Nasser e dello stesso Sadat, limitare il radicamento del wahabismo all’interno della “Santa Sede” del sunnismo.

@secaputo

Foto Ansa

Exit mobile version