Erdogan, il sultano

Così alle elezioni del 7 giugno si prepara a realizzare il suo sogno. Prendersi il parlamento e trasformare la Turchia in una repubblica superpresidenziale islamica

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Tutta la suspence intorno al risultato delle elezioni politiche in Turchia di domenica ruota attorno a un’unica incertezza: se nel prossimo parlamento l’Akp, il partito islamista del presidente Recep Tayyip Erdogan e del primo ministro Ahmet Davutoglu, disporrà “solo” della maggioranza assoluta per governare in solitaria il paese, oppure se disporrà di una supermaggioranza qualificata che gli consentirà di cambiare da solo la Costituzione. Nel qual caso, da repubblica parlamentare leggermente semipresidenziale quale è, la Turchia si trasformerà in repubblica superpresidenziale, come l’Akp propone da tre anni e come Erdogan non perde occasione di caldeggiare. Il presidenzialismo che l’ultradecennale mattatore della politica turca sogna prevede che il capo dello Stato abbia l’ultima parola sull’esecutivo, il controllo della politica monetaria della banca centrale e il dominio sul potere giudiziario, che non sarebbe più autonomo rispetto all’esecutivo. Più che a un presidente, il capo dello Stato come lo immagina Erdogan assomiglia a un sultano. E forse è proprio quello che pensa quando dice che il presidenzialismo «è nel Dna storico della Turchia».

Le speranze di tutti coloro che considerano un incubo l’avvento di una repubblica sultanale sono rivolte all’Hdp, il Partito democratico popolare, una convergenza fra la sinistra radicale turca e le istanze autonomiste della minoranza curda (10-15 per cento della popolazione), rappresentate fino a ieri in forma legalista dal Partito democratico delle regioni (Dbp) e in forma clandestina dal Pkk di Abdullah Öcalan, per quindici anni (1984-1999) dedito alla lotta armata contro il governo turco. Secondo i sondaggi l’Hdp non andrà oltre il quarto posto alle elezioni del 7 giugno, eppure il suo score finale risulterà decisivo per le sorti della costituzione turca.

Il piano rischioso dell’opposizione
Nel paese vige la più alta soglia di sbarramento del mondo: per eleggere deputati occorre almeno il 10 per cento dei voti. Mai nessun partito di ispirazione curda da solo è apparso in grado (nonostante le stime sulla consistenza numerica della minoranza curda) di andare oltre il 6,5 per cento dei voti su base nazionale. Tuttavia nel parlamento uscente siedono 29 deputati che ieri facevano riferimento al Dbp e oggi all’Hdp, eletti come indipendenti. Gli indipendenti possono presentarsi a titolo personale in un collegio, e se risultano il candidato più votato entrano in parlamento. Stavolta l’Hdp ha deciso di rinunciare all’escamotage degli indipendenti, e di presentare la propria lista. Se supererà la barra del 10 per cento, per la prima volta i deputati favorevoli all’autonomia curda in parlamento saranno fra i 50 e i 70 (compresi elementi della sinistra radicale, femminista e ambientalista). In gran parte strapperanno il posto a candidati dell’Akp.

Questo, unito al fatto che gli altri due partiti di opposizione – i laici conservatori kemalisti del Chp e la destra nazionalista dell’Mhp – sono in ripresa rispetto alle elezioni del 2011, creerebbe uno scenario nel quale l’Akp non raggiungerebbe la maggioranza qualificata di 367 seggi (su 550) per poter cambiare da solo la costituzione. Al massimo potrebbe sperare di confermare i seggi attuali (327), oppure scenderebbe, secondo alcune proiezioni, fino a 279.

Se invece l’Hdp sfiora il 10 per cento senza raggiungerlo, lo scenario si ribalta: in quasi tutti i collegi dove i curdi eleggevano i loro candidati presentandoli da indipendenti, il secondo posto toccava all’Akp; se a causa del mancato raggiungimento della soglia di sbarramento come lista nazionale Hdp stavolta non ne conquistano nemmeno uno, quei seggi andranno quasi tutti all’Akp. Così, anche se il partito di Erdogan dovesse scendere dal 49,8 per cento del 2011 a un risultato attorno al 44-45 per cento come molti pronosticano, la maggioranza qualificata sarebbe a portata di mano.

Una catastrofe in arrivo?
Perché l’Hdp ha scelto una strategia così arrischiata? Le analisi dietrologiche si sprecano. Un’interpretazione possibile è quella che si tratti di un’opzione del tipo “o la va, o la spacca”. Negli ultimi anni Erdogan ha avviato trattative col leader imprigionato del Pkk Öcalan e ha fatto concessioni ai curdi legalisti a livello dei “diritti culturali”. Ma recentemente ha criticato il governo Davutoglu per “eccessive concessioni” nei negoziati col Pkk e va ripetendo in giro che «i curdi hanno avuto tutto». Un Erdogan dotato di superpoteri potrebbe bloccare ogni processo di pace. Ecco allora la scommessa: se l’Hdp porta in parlamento 50-70 deputati, diventa una forza che può offrire il suo sostegno alla riforma della costituzione in senso presidenzialista in cambio di concessioni reali alle richieste autonomiste curde; se invece non supera la soglia di sbarramento, può gridare alla truffa elettorale e salire sull’Aventino. Seguirà una ripresa della lotta armata da parte del Pkk, alla quale si unirebbero forze dell’estrema sinistra turca.

La seconda, catastrofica ipotesi non è affatto peregrina. L’insofferenza delle opposizioni per il crescente autoritarismo di Erdogan, al potere dal 2002, è arrivata ai livelli di guardia. La repressione delle manifestazioni di Gezi Park (maggio-agosto 2013) è stata un punto di svolta. Attacchi e attentati da parte di gruppi marxisti-leninisti, anarchici, islamisti e curdi si susseguono da mesi su tutto il territorio nazionale. L’ultimo giro di vite ha visto la seconda legge-bavaglio contro i siti internet di informazione approvata nel giro di nove mesi e l’espulsione dalla magistratura di quattro pubblici ministeri e un giudice che avevano avviato inchieste per corruzione contro esponenti del governo e loro familiari. Più che dalla repressione (in prigione restano attualmente solo 4 giornalisti, una quarantina che erano detenuti sono stati rilasciati fra l’anno scorso e quest’anno) la libertà di stampa è paralizzata dalla gragnuola di querele per vilipendio del capo dello Stato, che da quando Erdogan è diventato presidente registrano una media di quasi una al giorno. Finire davanti a un giudice per un giornalista è sempre più rischioso, essendo ormai i vertici della magistratura – un tempo insieme alle forze armate bastione del laicismo lasciato in eredità da Atatürk e castigamatti degli islamisti, dei quali mise fuorilegge vari partiti – controllati da uomini organici all’Akp.

Democrazia per le allodole
Dopo aver epurato la vecchia guardia laicista, l’anno scorso e quest’anno il governo si è sbarazzato di agenti e ufficiali di polizia e magistrati affiliati al movimento Hizmet, una specie di confraternita fondata dall’imam Fetullah Gülen (autoesiliato negli Stati Uniti dal 1999) che ha come missione un rinascimento islamico nell’epoca moderna e che nel tempo ha infiltrato magistratura e polizia turche. Nonostante l’affinità ideologica e una lunga alleanza di fatto, dal 2013 Akp e Hizmet sono risucchiati in una lotta fratricida che ha visto soccombere il secondo.

A opporsi a Erdogan ora è anche l’ex presidente Abdullah Gül, alleato non pentito di Hizmet da sempre contrario al presidenzialismo, che ha evocato la possibilità di brogli elettorali. Le amministrative dell’anno scorso hanno visto un boom di denunce in proposito.

Le credenziali democratiche di Erdogan e dell’Akp sono sempre state dubbie, ma la genuinità dei successi elettorali di questi anni non è in questione, né la liberalizzazione politica che inizialmente seguì alla vittoria. Erdogan ruppe con gli islamisti puri e duri del Millî Görüs per creare un partito che voleva conciliare democrazia secolare, diritti individuali e tradizione religiosa. I suoi primi anni di governo furono caratterizzati da riforme che andavano nel senso dell’armonizzazione con le norme europee e che ebbero il sostegno dei democratici turchi. Ma, come scrive Svante E. Cornell sul Journal of International Security Affairs, «la dedizione del partito ai valori occidentali serviva uno scopo immediato e strumentale: sottomettere il vecchio sistema semiautoritario di tutela. Fino al colpo di Stato del 1997, Erdogan (allora sindaco di Istanbul) e i suoi avevano visto nell’Unione Europea solo un club cristiano. Ma nel 1987 capirono che potevano volgere le istituzioni europee a loro vantaggio. Vedendo lo scandalo degli occidentali di fronte al golpe militare, si allinearono alle richieste europee di controllo del governo civile sulle forze armate e rivestirono le proprie della retorica dei diritti umani e della democrazia. Alla data del 2008 l’Akp era già riuscito a rintuzzare i flebili tentativi dei militari di sottometterlo e a far eleggere un suo candidato alla presidenza. Alla data del 2010 Erdogan era riuscito attraverso un referendum a prendere il controllo del sistema giudiziario. Una volta consolidato il suo potere, l’aderenza alle norme e ai valori occidentali non era più necessaria come leva contro il vecchio establishment, e l’Akp tornò a ignorarli nella pratica, occasionalmente riaffermandoli a parole».

Capriole da ottomani
La natura opportunistica del rapporto che Erdogan e l’Akp intrattengono coi valori democratici emerge anche dalla febbrile politica estera della Turchia degli ultimi anni: all’indomani della “Primavera araba” Ankara si è schierata con chi chiedeva i cambi di regime, e in Siria ha appoggiato le richieste dell’opposizione che chiedeva riforme democratiche. Fino al giorno prima Erdogan intratteneva un rapporto privilegiato con Bashar el Assad e non aveva nulla da rimproverargli. Nel 2009 addirittura gli eserciti dei due paesi avevano condotto manovre militari congiunte. Dopo lo scoppio della guerra civile in Siria, la Turchia ha favorito il transito di armi e combattenti verso tutti i gruppi armati, senza distinzioni fra moderati e islamisti anche se ufficialmente appoggiava il filo-occidentale Libero esercito siriano. Oggi appoggia, insieme alla “democratica” Arabia Saudita, Jaysh al Fatah, coalizione di salafiti e qaedisti siriani (quelli di Jabhat al Nusra). La spiegazione di queste contorsioni tattiche è una sola: alla Turchia di Erdogan importa solo la riunificazione del Medio Oriente come entità politica islamica, sotto la guida di una Turchia neo-ottomana. Nelle Primavere arabe l’Akp ha visto una opportunità per portare avanti il suo disegno. Ma finora l’esito è stato l’isolamento progressivo. In sequenza, la Turchia ha rotto le relazioni con Israele, Siria, Iran ed Egitto, raffreddato quelle con Bruxelles e Washington.

Erdogan ha ancora molte frecce nel suo arco per far fronte al rallentamento della crescita economica del paese (favolosa nei primi anni del suo mandato, con una media del 6 per cento all’anno fra il 2002 e il 2007 e del 3 per cento dopo di allora) e per tenere a bada gli oppositori legali. Il vero pericolo per il suo potere sta nella crescente violenza politica e nel ritorno di forme di lotta armata. Che presto potrebbero essere portate da quegli stessi gruppi jihadisti combattenti sul suolo siriano, verso i quali Ankara ha chiuso un occhio, nella speranza che abbattessero il regime di Assad. Come scrissero l’anno scorso sul New York Times Michael Taunchman e Halil Karaveli, la Turchia assomiglia al Pakistan degli anni Novanta: un paese che ha manipolato i gruppi jihadisti per combattere un nemico straniero (l’India); alla fine gli si sono rivoltati contro e oggi minano la sua stabilità. 

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

Exit mobile version