Emergenza acqua, una soluzione c’è. Ma non è gratis

Il problema non è la siccità, è la gestione. Pubblica o privata che sia, la rete idrica ha bisogno di investimenti. Enormi investimenti. Quindi tariffe più alte

Roma sta affrontando un’emergenza idrica, ma in Italia l’acqua non manca. «È evidente che il problema è la cattiva gestione della risorsa, non la sua scarsità», commenta a tempi.it Serena Sileoni, vicedirettore dell’Istituto Bruno Leoni. L’Istat rileva che il volume delle risorse idriche in Italia rimane stabile e un periodo di siccità era prevedibile, grazie ai numerosi modelli di previsione dei cambiamenti climatici di cui disponiamo. «Le criticità stanno alla base, nell’inefficienza del nostro sistema idrico». I buchi sono molteplici: la popolazione e il suo fabbisogno sono aumentati, ma la rete è sempre la stessa; non si eseguono opere di manutenzione con la conseguente dispersione di acqua anche a causa delle falle nelle tubature; mancano sistemi di depurazione. «Tutto questo perché in Italia mancano da sempre gli investimenti nel settore. In aggiunta, stiamo ora patendo le conseguenze del referendum sull’acqua del 2011 che ha reso impossibile fare della gestione del servizio idrico un’attività di impresa».

STORIA DEL PROBLEMA. Il costo del sistema idrico è un problema radicato nella nostra storia e che ci trasciniamo dietro da molti decenni. Mentre i servizi di elettricità, gas e telefonia sono sempre stati onerosi per i clienti, storicamente il servizio dell’acqua è rimasto per gli italiani gratuito o semi gratuito. Per molti anni i costi per la gestione degli acquedotti, per la raccolta, il trattamento e la distribuzione dell’acqua superavano di gran lunga i ricavi, cosicché il settore era costantemente in perdita. Si trovò un compromesso a partire dagli anni Trenta, quando si cominciò ad affidare la gestione del servizio idrico (sconveniente per un’impresa dal punto di vista economico) ad aziende attive anche nel mercato del gas. In quegli anni molte società italiane del settore, aventi come prefisso alla denominazione sociale AMGA (acronimo per Azienda Municipalizzata Gas Acqua), riuscivano a coprire le perdite del settore idrico con parte dei ricavi provenienti da quello del gas. Negli anni Cinquanta e Sessanta si poté così costruire la rete acquedottistica nazionale, ma da allora, a causa della cronica mancanza di redditività dell’acqua, quest’infrastruttura non è stata sottoposta a importanti opere di manutenzione. Come risultato, oggi le reti idriche, che sostanzialmente sono rimaste quelle del Dopoguerra, sono obsolete e usurate per mancanza di manutenzione, e si stima che a livello nazionale il 40 per cento di media dell’acqua immessa in rete vada dispersa o comunque non sia misurata.

LE CONSEGUENZE DEL REFERENDUM. Questo quadro ha poi subìto gli effetti negativi dell’esito del referendum sull’acqua del 2011. Gli italiani hanno votato a favore della gestione pubblica dell’acqua e soprattutto hanno bocciato la cosiddetta “remunerabilità degli investimenti”. In pratica, per il gestore sarebbe stato possibile recuperare il capitale investito nel settore idrico (necessario per ulteriori investimenti) alzando le tariffe sull’acqua, cioè, in ultima istanza, aumentando le bollette. Il voto al referendum ha però impedito questa soluzione. «Sventolando slogan facili e vuoti, si è deciso di bloccare gli investimenti. In Italia è radicata la convinzione che l’acqua non dovrebbe avere prezzo, ma trovare l’acqua, trattarla e distribuirla ha dei costi enormi. Nessuno mette in dubbio che l’acqua sia un bene primario e comune, ma se vogliamo efficienza e qualità nel servizio abbiamo bisogno di una gestione imprenditoriale», sostiene Sileoni. Per farsi un’idea, basta fare un raffronto con gli altri paesi d’Europa: l’Italia è la nazione con i costi dell’acqua più bassi per gli utenti. Lo sbilanciamento emerge chiaramente nelle bollette italiane, dove elettricità e gas costano decisamente di più dell’acqua, mentre le altre famiglie europee pagano circa le stesse cifre in tutte e tre le bollette.

QUALCOSA SI È MOSSO. La situazione ha cominciato a migliorare lo scorso maggio, quando il Consiglio di Stato ha convalidato un nuovo metodo tariffario proposto dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico. «Le tariffe sono state leggermente alzate, dopo 6 anni di incertezza regolatoria, ma alcune difficoltà persistono», dice Carlo Scarpa, professore di Economia politica all’Università di Brescia. «Il sistema regolatorio funziona così: l’Autorità per l’energia detta dei criteri generali che gli organismi locali (in pratica, Consorzi e Comuni) traducono in provvedimenti specifici. Questa fase è molto delicata e complessa, soprattutto perché si intreccia alla politica». Il secondo aspetto su cui si è molto discusso, prosegue Scarpa, è la proprietà delle imprese attive nel sistema idrico. In Italia sono quasi tutte municipalizzate (o ex tali), cioè di fatto operanti all’interno della pubblica amministrazione. «La proprietà pubblica non è di per sé né un bene né un male, ma il problema è che in Italia il pubblico è un azionista con pochi soldi da investire. Il punto cruciale non è chi possiede queste imprese, ma chi ha i capitali necessari». Che sia pubblico o privato, l’investitore deve comunque essere in grado di finanziarsi sul mercato. «La soluzione è in ogni caso trovare il coraggio di dire che bisogna aumentare le tariffe idriche. Forse suona impopolare, ma se alziamo il costo dell’acqua possiamo preservare la qualità del sistema idrico».

TARIFFE E INVESTIMENTI. È della stessa opinione Antonio Massarutto, docente di Economia pubblica all’Università di Udine. «La proprietà pubblica o privata è un falso problema. Dobbiamo invece considerare che le tariffe sono aumentate, ma non abbastanza per coprire il volume degli investimenti necessari». Fino al 1994, spiega il professore, in Italia si investivano circa 10-15 euro pro capite l’anno, e ora 30-35 euro, mentre negli altri paesi europei anche 100-120 euro. «Dovremmo arrivare allo stesso piano d’investimento e renderlo stabile nel tempo. Si tratta però di un processo molto lungo del quale ora siamo solo all’inizio». Non solo per l’aumento delle tariffe, ma anche per l’apertura di cantieri e la realizzazione delle opere di ristrutturazione della rete. «Ai ritardi che già ci portiamo dietro, si accumulano quindi difficoltà logistiche e burocratiche». Quello che può fare la differenza, sostiene Massarutto, «è la presenza di un regolatore adeguato. Con il nuovo sistema tariffario stiamo andando verso un miglioramento che ha reso possibile a molte aziende pubbliche del settore di finanziarsi sul mercato con operazioni solide».

@fra_prd

Foto Ansa

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