Farina si difende e racconta le sue visite ai detenuti

Pubblichiamo la dichiarazione spontanea di Renato Farina resa al tribunale di Milano l'11 luglio 2012. «In queste mie dichiarazioni racconterò secondo lealtà il percorso di fatti e circostanze per cui oggi sono qui imputato»

Pubblichiamo la dichiarazione spontanea di Renato Farina resa l’11 luglio 2012. Oggi Farina è stato condannato a due anni e otto mesi di reclusione, senza la sospensione condizionale della pena per “falso in atto pubblico”.

Tribunale di Milano
Ufficio del Giudice per le indagini preliminari
Dott.ssa Mayer
Udienza 11 luglio 2012

In queste mie dichiarazioni racconterò secondo lealtà il percorso di fatti e circostanze per cui oggi sono qui imputato.
Intendo farlo illustrando il punto di vista da cui sin dall’inizio della mia attività parlamentare, che data dal 28 aprile 2008, ho concepito e praticato ciò che ho ritenuto un elemento cardinale del mio lavoro: la visita ai detenuti.
Dico detenuti: non si tratta anzitutto di ispezionare le strutture carcerarie, ma proprio di visitare le persone che lì sono ristrette e coloro che a vario titolo operano in questo cerchio concentrazionario.

Ho studiato sin dall’inizio la legge 354 del 1975.
I radicali che sono maestri in questo ramo del lavoro mi hanno istruito nella pratica, soprattutto per quanto concerne l’art. 67. In sintesi, ecco le regole di comportamento ortodosso. Non si devono portare giornalisti. Dopo aver preso nozione dei numeri attuali e dei problemi grazie ad un colloquio con la direzione, si visita tutto l’istituto, e se è impossibile per la vastità del sito ci si reca nelle sezioni che hanno fama di essere le più difficili, si esplorano con il metodo random questa o quella cella, si chiede di vedere quella persona o si domanda di verificare de visu una situazione segnalata da una lettera o da una telefonata, che sono quasi sempre quel che induce a una ispezione urgente. Con i detenuti non si deve mai parlare delle indagini che li riguardano.

Ho visitato in questo modo le prime carceri, un po’ alla rinfusa per così dire. Anzitutto San Vittore, Regina Coeli, Sulmona. Mi è subito parso chiaro che queste visite faticose sono un privilegio vero dei deputati, permettono di crescere in umanità. Ho ripetuto spesso che noi parlamentari non abbiamo gratis solo il biglietto per volare in aereo ma anche per volare in carcere, e senza bisogno di prenotazione.
Poi la svolta, a causa di due incontri precisi.
Da quel momento non ho più seguito un progetto o l’istinto di un dovere, ma la mia coscienza è stata presa per il bavero e trascinata dove non avrei mai pensato. La svolta, come dicevo, è stata quando una signora mi ha telefonato disperata come “mamma di S. F.”, al quale avevo dato un mio biglietto da visita durante l’ispezione alla sezione protetti di Regina Coeli. La donna riteneva che la condizione mentale del figlio – un ufficiale dei carabinieri in congedo –  non fosse compatibile con la detenzione. Ho scritto lettere, ho proposto interrogazioni parlamentari. Mi sono specializzato per così dire nelle visite alle sezioni protetti ed in particolare ai sex offender di  diversi carceri, romani e non solo. In particolare il direttore o il comandante del carcere di Regina Coeli mi hanno sollecitato a incontrare un sacerdote in condizioni penosissime indiziato di fatti molto gravi. La notizia che lo avessi visitato si è sparsa tra i suoi parrocchiani, si sono fatti ricevere, temevano il peggio. Ho chiesto allora a una signora che mi pareva la più serena di aiutarmi “nel mio ufficio”: ad accompagnarmi cioè dai protetti e da quel sacerdote. La signora in questione era ed è tuttora dirigente del Banco Farmaceutico, che si occupa di procurare medicine non rimborsate dal servizio sanitario nazionale a chi sia in stato di bisogno. Siamo ancora a luglio del 2008. La dottoressa Consuelo De Lorenzi, questo il suo nome, era brava, ha superato il trauma del primo impatto. Con lei sono stato poi in diverse strutture romane. Ci siamo occupati anche del caso di Stefano Cucchi.

Nel settembre del 2009, prima di quel tremendo mortale episodio (22 ottobre), siamo stati nel reparto carcerario dell’Ospedale Pertini: eravamo i primi in assoluto ad accedervi ex art. 67. Ho scritto subito, grazie anche alle osservazioni della mia collaboratrice, una lettera al direttore del Dap dottor Ionta per sollecitare una ispezione e un cambiamento della struttura (allegato n. 1).

Perché la chiamo collaboratrice?

Ho dichiarato il falso la prima e la seconda volta, allorché la qualificai come tale? Per quanto atteneva alla mia responsabilità lo era, avevo fatto una scelta insindacabile, attenendo essa agli interna corporis del mio statuto costituzionale di deputato. Ma è stato solo nel maggio del 2010 che ho potuto formalizzare la posizione della dottoressa De Lorenzi.

La notizia del mio impegno nelle carceri si era intanto diffusa, e mi hanno chiamato dovunque in Italia.

Come mi regolavo? Ad esempio nelle carceri siciliane mi sono fatto accompagnare da una religiosa, suor Maria Goretti Ricotta, la quale mi aveva scritto segnalandomi le situazioni di varie persone e l’angustia di certe strutture. Così con lei sono stato prima al carcere di Trapani quindi ad Augusta. In altri casi ho scelto la compagnia di militanti radicali o di studenti che mi scrivevano manifestando interesse per questo ambito.

Perché, pur essendo uno dei pochi deputati che paga due collaboratori alla Camera regolarmente assunti, usufruivo di altri? La Camera non paga i viaggi dei collaboratori, ovvio che essendo le carceri italiane dislocate dovunque, mi sia avvalso dell’aiuto di molta gente disponibile. Chiedo loro di prendere appunti, di guardare con i loro occhi. Imponevo loro di non dire una parola durante le visite e di non scriverne nulla, al di fuori di un rapporto da destinarmi, neanche nei social network. Questo soprattutto era dirimente: il fatto di non scriverne nulla.

Infatti, tra i fogli che si firmano entrando in carcere, il primo   serve ad attestare l’esistenza di un rapporto di collaborazione con l’accompagnatore. L’altro, riguarda l’impegno a non scriverne da giornalista. Tutto questo è sempre stato da me rigorosamente osservato.

Sono stato in circa trenta istituti di pena, e le mie visite sono state più di cento. Ho avuto circa ventidue collaboratori (il Dap non ha voluto o potuto fornirmi i dati che mi riguardano), e credo di aver adempiuto al meglio al mio dovere, utilizzando quanto era importante per il mio ufficio. Mi spiego.

La legge 26 luglio 1975, n. 354 sull’Ordinamento penitenziario è informata in ogni sua parte all’implementazione dell’articolo 27 della Costituzione dove si fa riferimento al «senso di umanità» ed alla finalità rieducativa come orizzonte costituzionale della pena cui tutte le misure limitative della libertà personale «devono tendere». Devono tendere è tra virgolette. C’è un imperativo. Ho potuto leggere i verbali stenografici delle fasi preparatorie   e le diatribe nelle Commissioni Giustizia del Senato e della Camera nonché le discussioni in aula. L’articolo 67, in origine articolo 49,  prevede le visite di alcune particolari categorie di persone così da rendere più percorribile, più agevole, questa strada di umanità e rieducazione. Dunque, quando si afferma che “L’autorizzazione non occorre nemmeno per coloro che accompagnano le persone di cui al comma precedente per ragioni del loro ufficio”, è ovvio che le “ragioni d’ufficio” del parlamentare, nella circostanza specifica,  richiedono la presenza di un accompagnatore che il medesimo deputato ritenga idoneo a coadiuvarlo nel suo compito costituzionale di umanizzazione e rieducazione. Non può esserci un regolamento o una circolare di un funzionario che di fatto contraggano questo esercizio, nella legge non è previsto e nemmeno se ne trova traccia nei lavori preparatori.

La prassi e l’esperienza parlamentare sono chiarissime.

Pannella mi ha assicurato che dal 1975 in poi ha visitato di tutto e di più facendosi accompagnare da chiunque, sempre in funzione del suo ufficio, e mi ha detto: “Beato te, io non sono mai riuscito a farmi processare”.

Del resto, sin dagli inizi, quando entrai nelle carceri per un’iniziativa dei radicali a Ferragosto, sottoscrissi come altri 400 parlamentari il foglio dove dichiaravo miei collaboratori militanti radicali che avrei imparato a conoscere solo in seguito. In quel caso i collaboratori erano elevati per ciascun parlamentare al numero di 4.

Insomma, duemila persone dichiararono presuntivamente il falso…?

Quando a qualche amico parlamentare che mi chiedeva conto, dopo un articolo uscito inopinatamente su “Repubblica”, di questa mia vicenda, ho raccontato l’imputazione, tra i pochi habitué delle visite c’è stata costernazione e stupore.

Ed un fiorire di ricordi.

Ad esempio l’onorevole Ermete Realacci mi ha raccontato come abbia accompagnato l’allora segretario confederale della Cgil Sergio Cofferati a trovare il comune amico Adriano Sofri, e nessun procuratore ha perseguito Realacci o Cofferati per l’affermazione che quest’ultimo fosse un collaboratore del primo.

La lettera dell’Onorevole Rita Bernardini a me indirizzata il 5 luglio scorso credo sia utile a capire come funzionano le cose (allegato n. 2).

Caro Renato,

chi, come me e te (e come i radicali da sempre), visita costantemente le illegali carceri italiane, dove decine di migliaia di detenuti e di detenute sono sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, può farlo grazie all’art. 67 dell’Ordinamento Penitenziario (Legge 26 luglio 1975 n. 354) che specifica che gli istituti penitenziari possono essere visitati senza autorizzazione da figure istituzionali tassativamente indicate e, fra queste, dai membri del Parlamento (lettera b del 1° comma). Il comma 2 dello stesso art. 67 precisa che “L’autorizzazione non occorre nemmeno per coloro che accompagnano le persone di cui al comma precedente per ragioni del loro ufficio (…).

Sappiamo anche che se la visita di sindacato ispettivo non si riduce – come purtroppo spesso accade per alcuni eletti nelle istituzioni – ad un’occasione di pubblicità personale attraverso i mass media, questa deve essere approfondita, necessita di molto tempo, richiede capacità di ascolto sia del personale tutto che lavora nel carcere sia dei detenuti che nel carcere sono ristretti. Per la finalità di verificare le condizioni di detenzione, la legge ha previsto che il parlamentare possa essere accompagnato; e non solo perché quattro o sei occhi possono vedere cose che a due possono sfuggire, ma per raccogliere, per esempio, dati di fatto che possano tornare utili alla presentazione di un’interrogazione o di un’interpellanza al Governo secondo quanto previsto dai regolamenti parlamentari.

Nelle oltre 200 visite che in questa legislatura ho fatto in istituti penitenziari, mi sono sempre fatta accompagnare da persone, per lo più militanti e dirigenti radicali del posto, che seguono assiduamente le vicende del carcere della loro città. Altre volte, per situazioni particolari legate alle condizioni igienico-sanitarie, ho scelto di portare con me medici o psicologi. A mio avviso la legge citata è chiara, soprattutto se, come ho già scritto, rapportata alle finalità che si prefigge.

Per concludere in un modo anche un po’ sorridente ti dico questo: lo sai chi è spesso il mio “accompagnatore” nelle carceri? Marco Pannella! Già, Pannella da anni non è più parlamentare e per visitare gli istituti di pena viene con me o con altri deputati o senatori radicali. Preciso, nel caso ti venisse un dubbio, che Marco non è mio collaboratore stabile e continuativo.

Un abbraccio

Rita

Rita Bernardini
deputata Radicale
Commissione Giustizia Camera dei Deputati

Non ho mai avuto nemmeno l’ombra del dubbio sul fatto di aver sempre rispettato la legge.

Il 6 maggio del 2011 ebbi conferma, dalla rassegna stampa di Radio Radicale, della legalità piena di tale comportamento, allorché  “Liberazione” pubblicò un articolo che non fu smentito da alcuna fonte giudiziaria. Ho ricopiato dalla versione internet titolo e testo (allegato 3).

Assolta la consigliere regionale Anna Pizzo
Ispezioni in carcere, chiunque può accompagnare i parlamentari
di Paolo Persichetti, Liberazione 6 maggio 2011

I parlamentari o i consiglieri regionali che conducono visite ispettive nelle carceri possono avvalersi dell’ausilio di accompagnatori di loro scelta. Membri del governo, parlamentari europei, sindaci e presidenti della provincia, magistrati a capo dei tribunali e delle procure dove hanno sede le carceri, presidenti delle Asl competenti per territorio, garanti dei detenuti ed altri ancora. E’ piuttosto ampia, anche se ancora del tutto insufficiente per rendere le mura delle prigioni trasparenti, la schiera di figure istituzionali che possono entrare nelle carceri per condurre visite ispettive senza previa autorizzazione. Nel corso delle visite queste autorità possono avvalersi delle presenza di accompagnatori, anche questi autorizzati a varcare la soglia degli istituti di pena senza necessità di nessuna autorizzazione. Lo prevede l’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario.

Una prassi consolidata, che tuttavia non è indicata nella norma, contiene il numero degli accompagnatori ad un massimo di due a testa. L’amministrazione penitenziaria non ha alcuna autorità per introdurre limitazioni ad una norma di legge. Lo ha ribadito ieri con una decisione lampo il gip del Tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi su una denuncia depositata nel dicembre 2009 dalle direzioni del carceri romane di Regina Coeli e Rebibbia femminile contro l’allora consigliera presso la regione Lazio, Anna Pizzo, insieme alle due persone che l’avevano accompagnata durante le visite nei due istituti di pena. Si trattava delle madri di due giovani di un centro sociale della Capitale, il Macchia rossa, situato nel popolare quartiere della Magliana e finito al centro di un teorema accusatorio ispirato da alcuni esponenti locali del Pdl, ex An, che avevano come unico scopo quello di sloggiare l’occupazione, da parte di una decina di famiglie senza casa, di una scuola abbandonata da anni. Occupazione che ostacola la realizzazione di alcuni lucrosi progetti speculativi (cf. Liberazione del 10 dicembre 2009).

I due, Gabriele e Francesca, erano finiti in carcere e si trovavano in isolamento. Poche settimane prima, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, Stefano Cucchi era morto nel reparto carcerario dell’ospedale Pertini dove era finito dopo le percosse subite prima di passare davanti all’udienza di convalida dell’arresto in tribunale. Sui media campeggiavano da giorni polemiche e denunce sulle condizioni in cui si svolgevano i fermi nelle stazioni dei carabinieri e nei sotterranei del tribunale di piazzale Clodio. La visita in carcere venne realizzata per verificare le condizioni di salute e di detenzione dei due giovani e nel rispetto delle procedure previste. All’ingresso dei due istituti la consigliera regionale e le due donne che l’accompagnavano si videro obbligate a compilare un prestampato dell’amministrazione penitenziaria nel quale era indicata, senza altra possibilità di scelta, la funzione di “collaboratore” (da intendersi come figura stabile e continuativa) per qualificare il ruolo di accompagnatrici. Nel declinare le loro generalità le due donne fecero presente di non rientrare in quella fattispecie, ma poiché la burocrazia penitenziaria non prevedeva altre possibilità furono costrette a riempire l’unica casella esistente. Sulla base di queste dichiarazioni, in qualche modo “imposte” per un’imperizia burocratica dovuta ad una forzata interpretazione restrittiva della legge, le direzioni dei due istituti hanno successivamente inviato una segnalazione in procura provocando l’apertura d’ufficio di un procedimento penale per false dichiarazioni. «Il fatto non sussiste», ha stabilito il Gup.

Si trattava a questo punto di rendere anche circolari e regolamenti idonei a recepire la lettera e la ratio di quell’articolo 67 O.P. che invece visibilmente contraddicevano

Per questo ho presentato un ordine del giorno che fu accolto con entusiasmo dal ministro di Giustizia Severino. E credo che un ordine del giorno approvato dalla Camera e sottoscritto dal Governo non sia l’opinione di un imputato.

E’ l’atto Camera 9/4909/7, a mia prima firma (allegato 4).

La Camera,

premesso che:

l’articolo 27 della Costituzione è teso a caratterizzare la pena nel senso della «umanità» e della «rieducazione». Tale intendimento può essere realizzato non solo se si garantiscono condizioni di decenza abitativa e di sostegno formativo all’interno delle carceri, ma se si impedisce l’isolamento del mondo dei «ristretti» dal mondo dei liberi;

a sua volta la comunità esterna al carcere deve educarsi a guardare ai detenuti e alla loro condizione come qualcosa che attiene alla civiltà stessa del nostro Paese,

impegna il Governo

a favorire, attraverso circolari esplicative in tal senso dell’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario, la visita negli istituti di pena di scolaresche accompagnate da parlamentari o comunque aventi diritto ex articolo 67. Ovviamente non in modo indiscriminato ma studiando un percorso che consenta proficui rapporti tra la «città della scuola» e il «pianeta carcere».

Renato Farina, Centemero, Toccafondi, De Nichilo Rizzoli.

Si noti la data di questo impegno preso dal governo su mia istanza: 14 febbraio 2012. Di lì a pochi giorni si sarebbe discussa la legge per favorire il lavoro di detenuti ed ex detenuti di cui sono primo firmatario.

Si noti ancora: la circostanza precisa per cui sono imputato si verifica il venerdì 17 febbraio, tre giorni dopo.

Mi interessava tenere insieme molte cose, con quella disgraziata visita a Opera. 1) Verificare le condizioni di lavoro attuale e il parere da parte di detenuti e operatori sulla mia proposta normativa che vuole attualizzare la legge Smuraglia;
2) dare sostegno psicologico a un detenuto in gravi difficoltà (Lele Mora);
3) continuare in quel disegno esposto dall’ordine del giorno, finalmente fatto proprio dal Governo, e cioè mettere in contatto ex art. 67 giovani e carcere.

Spiegai a (omissis) che mi interessavano le osservazioni di un ragazzo sul lavoro nelle carceri e sulle condizioni della detenzione in celle di sicurezza.

Gli imposi non dicesse una parola durante i vari incontri.

Perché (omissis)? Era una delle persone che mi avevano scritto, dopo che avevo pubblicato una lettera sul giornale e avevo parlato in televisione delle condizioni di grave prostrazione e del tentato suicidio di Lele Mora.

Mi pareva la persona più adatta a connettere in sé le ragioni prima esposte, soprattutto la ragione umanitaria nei confronti di Mora. Era entusiasta, gli prospettai di cominciare con me questa avventura nel pianeta carcere, che si sarebbe potuta trasformare in una grande occasione di crescita umana e professionale.

Infatti, specialmente a Opera, sono in atto dei progetti di collaborazione di eccezionale livello proprio nel campo dello spettacolo, fino ad aver consentito la rappresentazione di una commedia musicale agli Arcimboldi, cosa per cui mi sono speso molto. Ci sono lettere che qui allego, da cui si individua il mio impegno in questo settore specifico (allegati 5 e 6).

In tutto questo ero perfettamente certo di essere nella piena legalità e nello spirito del mio mandato, indicando quel mattino come “consulente per i rapporti umani” questo ventenne.

Ho pensato di scrivere “consulente in questioni umanitarie”, ma mi pareva di gonfiare le cose.

Era un aiuto al mio ufficio di visitatore delle carceri onde promuovere in esse il “senso di umanità”, come dice la Costituzione e come prevede l’art. 67 della legge 354 del 1975.

È insieme un bagno di umiltà ed è molto pesante per un politico parlare con i detenuti, chiedono e rimproverano, raccontano e si disperano. É importante avere al fianco qualcuno che aiuti a portare questo peso e sia testimone di quanto detto e ascoltato.

In sintesi. Ho provato a raccontare in queste dichiarazioni come io abbia inteso e praticato l’articolo 67, progredendo nella sua comprensione fino al solenne avallo di Governo e Camera, comportandomi in ogni circostanza, anche in quella specifica per cui sono imputato, come meglio ho potuto, rispettando il mio dovere e i binari della legge.

Devo dire che dopo questa vicenda, e il relativo avviso di garanzia, ho evitato di andare accompagnato nelle carceri per evidenti ragioni di prudenza e di rispetto delle decisioni del giudice.

Aggiungo che avrei continuato il rapporto di collaborazione con (omissis), se immediatamente dopo non mi fosse giunto l’avviso di garanzia impedendomi così di sostanziare il patto verbale che avevo fatto con lui.

Milano, 11 luglio 2012

on. Renato Farina

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