E pensare che marinavo la scuola. Storia di “Nino” Anzani, che ha portato i mobili di design di Poliform dalla Brianza all’Australia

Un’azienda presa in mano a vent’anni insieme ai cugini, le prime fiere, il successo e la certezza che «sul fare bene le cose noi italiani siamo imbattibili». Parla Giovanni Anzani, ad di Poliform

«Tre figli, un’azienda così grande. Qualche volta ci guardiamo in faccia io e mia moglie, tutti e due nati tra Cremnago e Lurago. Chi avrebbe detto che avremmo fatto tutte queste cose». È questo l’unico cedimento alla voce “bilanci” quando Giovanni Anzani racconta la sua vita, quella della sua famiglia e quella di Poliform, l’azienda che negli anni Settanta ha preso in mano insieme ai cugini Aldo ed Alberto Spinelli, tuttora con lui al timone nel quartier generale di Inverigo. «Mi sembra di sentire ancora la voce di mio padre che mi grida “lazzarone vai a studiare”, mentre io scappo», sorride.

Sono gli anni Quaranta quando gli Spinelli e gli Anzani, stanchi di lavorare in bottega, fanno quello che in Italia, e in particolar modo in Brianza, è un gesto figlio dell’istinto più che del progetto: mettersi in proprio. Si comincia così con due famiglie, quattro cugini e un locale dove pian piano prendono corpo letti e soggiorni. Neanche il tempo di assestarsi che arriva la guerra e bisogna interrompere tutto. Al termine del conflitto quei giovani sono cambiati, reduci chi dall’Africa, chi dall’internamento.

Sarà la voglia di rivalsa, sarà quella misteriosa euforia che porta tanta Italia a liberarsi in fretta delle macerie per rinascere più bella ma è in questo periodo che la Spinelli-Anzani prende il via. Nino ricorda i “lunedì del falegname”, il riposo ridotto al minimo, le nottate in fabbrica. I bambini non vedono genitori eroici che si privano di tutto, ma uomini e donne che fanno quello che “bisogna fare”, quasi un obbligo in questo luogo geograficamente indefinibile ed esistenzialmente chiarissimo che è la Brianza.

In una zona punteggiata di paesi con poche migliaia di abitanti una fabbrica di seicento persone, quale è oggi Poliform, è un altro paese. E in effetti chi arriva qui ci si stabilisce, in gergo si dice che il turn over è molto basso. E anche che il legame col territorio è forte. Tutti motivi di grande orgoglio per Anzani: «Abbiamo la responsabilità di tante famiglie. E penso anche alle tante aziende che lavorano grazie all’indotto, generato soprattutto dalle grandi commesse del contract, e che se non ci fossimo noi sarebbero costrette a chiudere».

Tre ragazzi e le chiacchiere di paese
Il paese da grandi soddisfazioni, il paese chiacchiera. «Quando abbiamo preso in mano l’azienda negli anni Settanta in giro si diceva: vediamo quanto ci mettono a distruggere tutto». In effetti la compagine al comando, una volta ritiratisi i fondatori, è tutt’altro che rassicurante, in tre non fanno settant’anni.

Alberto Spinelli, 24 anni, è il più grande e ha una laurea in architettura conseguita a Firenze. Aldo Spinelli, 22 anni, è fresco di servizio militare. Giovanni, Nino, ha 20 anni ed è uscito dalla scuola d’arte di Cantù, «senza diploma e con un notevole record di lezioni “bigiate”». Per lui, che non ha ancora la maggiore età, i genitori devono fare l’emancipazione al Tribunale dei minori. Un atto analogo a quello che, decine di anni dopo, lo stesso notaio di allora compirà, il giorno prima di andare in pensione, per il figlio più giovane di Anzani «con le lacrime agli occhi per la commozione di una avventura professionale che ha seguito in tutte le sue fasi».

Ma torniamo agli anni Settanta, quando i tre al comando si mettono in moto, «con grande slancio e zero soldi». L’azienda è già grande, gli operai sono una cinquantina. Alberto, Aldo e Giovanni si dividono i compiti. In testa non hanno nessuna raccomandazione dei genitori. «Erano gente di poche parole e molti fatti. La capacità e la voglia di fare ce l’hanno trasmessa facendo», ricorda svelando una modalità educativa ancora viva oggi che l’intreccio tra lavoro e famiglia continua.

Intorno l’Italia cresce, entusiasticamente lanciata nel passaggio da paese agricolo a nazione industriale. Sembra un altro mondo rispetto a quello di oggi: le case si costruiscono, si comprano e ovviamente vanno arredate. Insieme alla vita delle famiglie cambia anche il gusto, così la transizione dal mobile classico a quello moderno è avviata, soprattuto in quella sua geniale versione made in Brianza che è il mobile di design.

«Nel 1970 al primo Salone del mobile abbiamo presentato un prodotto moderno. Non ne abbiamo venduto neanche uno. Ricordo ancora che c’erano due mobiletti di noce in un angolo e un rappresentante del Piemonte ce ne ha comprati due per compassione. Abbiamo insistito, siamo riusciti a trovare il pubblico giusto a cui rivolgerci e abbiamo venduto quel prodotto per dieci anni». L’azienda assume rappresentanti e inizia a vendere in tutta Italia le sue proposte per la zona giorno e la zona notte al completo.

Alla fine degli anni Ottanta Poliform partecipa alle prime fiere in Europa. Partono tutti e tre alla volta di città come Colonia senza sapere una parola di inglese. Ancora una volta a dettare le mosse è l’istinto e quella che oggi Anzani definisce una politica dei piccoli passi e dell’innovare nella continuità. Da Colonia tornano con molte idee e, all’inizio, nessun riscontro. Il fatto di avventurarsi fuori dall’Italia in un momento in cui il mercato interno è ancora forte permette una certa libertà di movimento, anche quella di non portare subito a casa i risultati.

«Avevamo capito che in Italia eravamo tanti a produrre e soprattutto che non si poteva crescere all’infinito, prima o poi il fabbisogno di case e dunque anche di arredamento sarebbe stato soddisfatto». Quando telefonano i primi stranieri in fabbrica non si trova chi sappia rispondere in inglese. «Sarà per questo che coi miei figli ho insistito sulle lingue: inglese, francese e tedesco. Io? A me basta il brianzolo». Il brianzolo è bastato per arrivare non solo in Europa, ma anche, dalla metà degli anni Novanta, in Asia, Stati Uniti, Inghilterra e Australia con 72 monomarca nelle più importanti capitali del mondo.
Pian piano l’offerta per la casa si completa con l’acquisto nel 1996 del marchio Varenna per le cucine. Una realtà che era in fallimento e oggi ha un centinaio di dipendenti e punta a raggiungere quest’anno i 47 milioni di fatturato.

«Quando sono entrato in azienda non sopportavo il fatto di non capire quanto fosse remunerativo un determinato prodotto. Tu sei lì, progetti, fresi, tagli. Ma non sai quanto rende davvero ciò a cui stai lavorando. Allora la contabilità era solo la fiscalità generale. Io avevo bisogno di altri dati così ho iniziato a interessarmi di contabilità industriale». Compra i libri, si barcamena tra distinte e proiezioni. Fino ad iscriversi ormai adulto anche ad alcuni corsi della Bocconi, quelli che gli interessano. Quelli che gli servono. In fondo è lo stesso Nino che alla scuola d’arte di Cantù saltava le ore di matematica e italiano per tornare durante quelle di disegno, dal vero o industriale.

A dettare le sue scelte la passione ma anche un’insofferenza potente per le perdite di tempo. «Non mi piaceva la matematica, ma la pietra sopra ce la misi quando arrivò in classe il professore nuovo: borsa buttata in terra, piedi sul tavolo, non ci guardava neanche in faccia. Sono uscito e non ho più messo piede nella sua aula». In quegli anni dalla scuola d’arte di Cantù passa una generazione di imprenditori, architetti, artigiani. «Prima che questa specie di cultura comunista trasformasse tutto in liceo, quella era una scuola che insegnava davvero un mestiere. A scuola con me c’era gente come Antonio Citterio, che poi è diventato il grande architetto che conosciamo oggi».

I laureati in disoccupazione
Sarà che i bravi artigiani sono sempre meno, sarà che ci sono professionalità che non si trovano mentre le aziende ne hanno bisogno e la disoccupazione giovanile galoppa, ma qui il tema della formazione dei giovani e più in generale quello dell’educazione è quanto mai sentito. «Produciamo laureati in disoccupazione», continua a ripetere Anzani con una sincera diffidenza nei confronti dei titoli di studio. Di qui il suo coinvolgimento in prima persona nel Polo formativo legno arredo di Lentate sul Seveso fortemente voluto da Federlegno Arredo, di cui Anzani è vicepresidente vicario. «Noi italiani siamo bravissimi a fare ma non a comunicare», sottolinea spiegando perché ai ragazzi occorre anche dare competenze di tecnico commerciale.

«Io ero come voi», gli piace ripetere ai ragazzi che frequentano le lezioni a Lentate sul Seveso, dove nel settembre scorso sono partiti i primi corsi. «Oggi i ragazzi si lamentano della disoccupazione, ma lamentarsi non serve a nulla, bisogna darsi da fare e non disperdere il patrimonio che abbiamo. La cultura del fare che c’è in Italia e soprattutto in Brianza non c’è altrove. Siamo diventati un distretto con la capacità di realizzare le idee di qualsiasi progettista e di risolvere i problemi. In termini di prezzo non possiamo certo competere con altri paesi, ma sul fare bene le cose siamo imbattibili».

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