Una realtà presente che promette l’infinito. La profezia di Solov’ëv e Dostoevskij

In un libro i tre brevi saggi che il filosofo russo dedicò all'amico scrittore. Chiesa, comunione, e quel finale dei Fratelli Karamazov. Gran discorso dell'abate Mauro Lepori

Lo scrittore russo Fedor Dostoevskij

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, l’intervento integrale che padre Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’Ordine Cistercense, ha tenuto martedì 5 ottobre nell’Aula Papa Benedetto XVI, in Vaticano, in occasione della presentazione del volume a cura di Giuseppina Cardillo Azzaro e Pierluca Azzaro “Fëdor Dostoevskij”, scritto da Vladimir Solov’ëv e pubblicato da Cantagalli nei Quaderni dell’Accademia Sapientia et Scientia. Alla presentazione hanno preso parte anche il Metropolita Hilarion di Volokolamsk (che firma la prefazione del libro), il cardinale Pietro Parolin, l’ambasciatore russo presso la Santa Sede Alexander Avdeev e il professore Pierluca Azzaro. 

Se c’è una parola che è risuonata continuamente in me leggendo le luminose pagine dei tre discorsi di Solov’ëv su Dostoevskij, questa parola è “profezia”. Solov’ëv ci aiuta a capire che abbiamo bisogno di profezia e mette in luce la potenza profetica di Dostoevskij. In questo, Solov’ëv si rivela lui stesso come un pensatore estremamente profetico. Quello che coglie e descrive in Dostoevskij è proprio la profezia di cui il mondo ha bisogno. È impressionante leggere questi testi dentro il bisogno di profezia che vive il mondo attualmente, oppure confrontandoli con l’apporto di uomini e donne che nelle Chiese e nella società incarnano questa profezia per noi, come papa Francesco, i suoi predecessori, o le grandi figure della Chiesa Ortodossa.
Solov’ëv ci fa capire che il mondo d’oggi, più che di profezie, ha bisogno di profezia, cioè di uno sguardo capace di scorgere una realtà presente che promette l’infinito. È proprio perché ci permette di vedere una realtà presente che la profezia non è utopia, e che essa per questo incarna una speranza, una speranza fondata sulla fede. Leggendo Solov’ëv e la sua lettura di Dostoevskij ci si sente accompagnati a scorgere di fronte a noi, fra di noi e in noi il seme della novità che sola può salvare il mondo e quindi dare speranza contro ogni speranza.

Esattamente vent’anni fa mi fu chiesta una conferenza per un convegno di artisti cristiani sul tema “Verità, bellezza e pace”. In quella conferenza avevo menzionato la visita che Fëdor Dostoevskij, dopo la morte di suo figlio Alëša, fece nel 1878, accompagnato da Solov’ëv, all’eremo di Optina dove incontrarono il grande monaco e starec Amvrosij, che ispirerà la figura dello starec Zosima ne I fratelli Karamazov. Dostoevskij ritornò dall’eremo di Optina tranquillizzato e notevolmente rappacificato. Solov’ëv ricorda questo episodio in una nota del primo discorso. Mi ha sorpreso, leggendo queste pagine di Solov’ëv, quando alla fine del secondo discorso mette in luce l’armonia che Dostoevskij ha incarnato fra la bellezza, la verità e il bene. Nella conferenza che feci vent’anni fa avevo portato come esempio di questa armonia fra le tre realtà – verità, bellezza e pace (e penso si possa identificare il bene con la pace) –, proprio quell’incontro fra Solov’ëv, Dostoevskij e lo starec Amvrosij. Dicevo che si poteva considerare Solov’ëv come l’uomo della verità, Dostoevskij come l’uomo della bellezza e lo starec Amvrosij come l’uomo della pace o, se volete, del bene. Il filosofo Solov’ëv e l’artista scrittore Dostoevskij si recano assieme dal monaco Amvrosij e il frutto di questo incontro fu per Dostoevskij la pace del cuore e un nuovo slancio di ispirazione.
Questo incontro fu, a mio parere, come un paradigma, come un’esperienza in cui la realtà dei valori di verità, bellezza e bene ha potuto avvenire, incarnarsi nell’ambito di un’amicizia. I grandi valori diventano realtà sperimentabile perché avvengono in un’amicizia.

Solov’ëv ci rivela in queste conferenze che fu proprio in quella visita a Optina che Dostoevskij concepì una grande opera sulla Chiesa, di cui ha potuto scrivere solo il primo volume, I fratelli Karamazov. Quando si legge questo romanzo sembra sempre che il finale sia un po’ incompleto, o piuttosto si sente che Dostoevskij aveva in mente un seguito e uno sviluppo ulteriori. Però, alla luce di quello che leggiamo in queste stupende pagine di Solov’ëv, capisco, nell’estrema limitatezza della mia conoscenza di Dostoevskij, che la scena finale de I fratelli Karamazov è una profezia, è compiuta in quanto profezia. Perché si mette in scena un’amicizia, l’amicizia sorgiva fra Alëša e alcuni ragazzini, un’amicizia in cui si decide, accanto a una grossa pietra, certamente simbolica, un’alleanza per continuare insieme il cammino. Basta rileggere le ultime battute con cui si conclude il romanzo: «Su, andiamo! Ecco e camminiamo così, tenendoci per mano!» dice Alëša pieno di gioia; e il ragazzo Kolja risponde subito: «E così per sempre, tutta la vita tenendoci per mano!».

Il metropolita Hilarion di Volokolamsk, a sinistra, e l’abate padre Mauro Lepori

Dostoevskij accenna così alla grande profezia che è la Chiesa, la Chiesa come mistero, come Corpo mistico di Cristo, che non si limita mai ad una particolare confessione. La Chiesa come Sposa di Cristo, la Chiesa che è l’umanità rinnovata, riunita, o come dice la Lumen gentium: “il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (§1). Proprio questa Chiesa è una realtà presente che promette l’infinito. La compagnia, l’amicizia, magari di sole tre persone come Dostoevskij, Solov’ëv e lo starec Amvrosij, oppure di Alëša con i ragazzini che lo circondano, o anche come noi stasera, è una realtà presente, un germe presente, una realtà ecumenica, che promette l’infinito; e l’infinito è la fraternità universale riconciliata in Cristo, la fraternità che non è soltanto un progetto ideologico, politico, economico, ecologico, che prima o poi scade in violenza, ma una speranza, fondata dalla e sulla fede in Cristo presente, e che si realizza come carità.

Questo giudizio, che dopo 140 anni da quando fu espresso è di una freschezza assolutamente sconvolgente, ci sorprende per la sua adeguatezza alla situazione in cui ci troviamo, alle crisi globali che attraversiamo. La lettura che Solov’ëv fa di Dostoevskij ci aiuta a capire che il fondo sempre positivo delle crisi dell’umanità è il fatto che viviamo dentro la speranza di una fraternità universale che già c’è, che già è data in Cristo morto e risorto per noi, ma che non è ancora compiuta, è sempre da avvenire, fino alla fine dei tempi, fino alla Parusia. Essere coscienti che siamo dentro questa tensione è un grande aiuto a vivere e a cogliere l’essenziale, il positivo, l’estremamente positivo che ci è dato di vivere sempre e comunque.

La speranza è una positività reale, è una letizia reale, ed è bello sentir descrivere da Solov’ëv come Dostoevskij coglie e fonda questa verità profetica nel popolo, nel popolo estremamente decaduto dei malfattori con cui era prigioniero in Siberia. Nei miseri, Dostoevskij scopre qual è il seme della speranza per il mondo intero: il fatto di riconoscersi peccatori ma redenti, di sapersi peccatori senza perdere la consapevolezza profonda di essere salvati, che una Salvezza c’è, che Gesù Cristo c’è.

La grande speranza profetizzata da Dostoevskij è così quella della Croce. La Croce di Cristo, ma anche quella che Lui ci chiede di portare ogni giorno alla sua sequela, è essenzialmente un grande fallimento. Non è un successo, ma un grande fallimento. Ognuno di noi, e ognuna delle nostre Chiese, come tutta la società, ne facciamo costantemente esperienza. Quello che dimentichiamo, e che questi grandi cristiani russi ci ricordano, è che proprio il fallimento della Croce è il segreto della redenzione del mondo, del mondo nuovo a cui tutti aspiriamo. La Croce è il seme presente, reale, della speranza della risurrezione di tutto e di tutti, che germina ora nell’alba di fraternità universale che i cristiani sono chiamati a sperimentare e ad offrire all’umanità.

Questi scritti mi rendono più cosciente di una cosa che tanti grandi spiriti colgono e tentano di suggerirci, di una cosa che dovremmo sempre rinnovare nei rapporti ecumenici: e cioè che l’unità, anzi: la comunione – per usare un termine tanto bello e tanto denso, soprattutto nell’Ortodossia –, la comunione non è solo un lavoro fra di noi, fosse pure ad alto e profondo livello, in particolare teologico; la comunione è un avvenimento a cui ci apriamo fissando Gesù Cristo.

Mi colpisce sempre il vangelo in cui Gesù annuncia la sua passione, ma, nel frattempo, di cosa parlano i suoi discepoli lungo il cammino? Parlano di chi sia il più grande fra di loro (cfr. Mc 9,30-37). Quello che è incredibile è che questi dodici discepoli abbiano fatto tutto quel cammino guardandosi fra di loro e non fissando gli occhi su Gesù, su Gesù che annunciava la passione, la morte e la risurrezione, su Gesù che si rivelava totalmente nel suo infinito mistero. Certo, non capivano quello che Lui diceva; non potevano capirlo. Ma il problema non è di capire come avverrà l’unità, la fraternità universale, come si salverà il mondo, questo mondo di oggi. Il problema è di non dimenticare di fissare gli occhi su Cristo. Perché anche nei momenti di maggiore confusione, guardare Gesù è possibile, ascoltare Gesù, è possibile. Perché Gesù Cristo è presente, qui ed ora, ci parla, ci rivela tutto, è la Rivelazione di tutto.

Io sono pieno di gratitudine, perché questi testi di Solov’ëv, che vanno veramente meditati, e sono di una bellezza che incanta, questi testi in fondo ci gridano un’esigenza assolutamente irrinunciabile se vogliamo voler bene al mondo, all’umanità, irrinunciabile per i discepoli di Cristo che siamo, che bene o male lo seguiamo, in tutte le Chiese: l’esigenza fondamentale per tutti è che torniamo a fissare gli occhi su Cristo, a contemplarlo, ad ascoltarlo, a dirigere l’attenzione su di Lui, ma veramente su di Lui, non sui dettagli delle nostre interpretazioni di Cristo, ma proprio su Cristo presente che ci promette una Salvezza totalmente già compiuta.
La grande profezia di Dostoevskij, come di Solov’ëv, è che la bellezza di Cristo salverà il mondo se i suoi discepoli, pur peccatori, perché peccatori, fisseranno insieme gli occhi su di Lui per trasmettere la sua luce al mondo.

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