Don Leonardo e l’alluvione: «Non m’interessa “fare del bene”, ma che cambino i cuori»

Il racconto del parroco della Collegiata di Lugo, divenuta base operativa per centinaia di volontari: «Ora che è impossibile impossessarci della realtà perché ci sovrasta, emerge il vero bisogno: quello di donarsi»

Lugo di Romagna è tra i comuni messi a dura prova dall’alluvione, per molti giorni l’acqua ha invaso case e strade senza defluire. Ora che le strade sono asciutte si è messo in moto il lavoro di pulizia e sgombero, una lotta con badili, spugne e braccia nude per riconquistare palmo a palmo la città. Don Leonardo Poli è parroco della Collegiata dei Santi Francesco e Ilaro, chiesa inondata dall’acqua e poi diventata punto di riferimento nei giorni di solerte attività di soccorso umano e ambientale. I ragazzi che sono parte dell’esperienza di Gioventù studentesca (Gs) hanno creato una chat che raccoglie più di 700 volontari e ne coordina le attività. Nelle sale della parrocchia è stata allestita una mensa gestita sempre da volontari, il pranzo delle 13 è occasione di ritrovo quotidiano per più di cento persone che ne fanno un momento di ristoro e condivisione tra il turno di lavoro della mattina e quello del pomeriggio. Ci sono argini che si rompono, altri che tengono e non sono fatti di terra ma di anime. Don Leonardo racconta cosa emerge e cosa va custodito dell’umanità quando l’ondata di piena si ritira.

Cos’è accaduto nella tua parrocchia dopo l’alluvione?

Vedo che si stanno raccogliendo i frutti di quel che si è seminato e coltivato, cioè un popolo. C’è un popolo in azione, che sa di avere delle fondamenta sicure e forti e per questo è addolorato ma non disperato. Questo popolo ha la certezza, che deriva dall’esperienza, di Gesù che ha detto: «Io ho vinto il mondo». Per un cristiano la scommessa è vedere dove è Dio. E non c’è circostanza dentro cui Lui non si possa manifestare. Quando abbiamo la percezione che Dio non si manifesti è perché vogliamo fare tutto noi. Questa circostanza dolorosa ci ha fatto fare i conti con quello che noi tendiamo a non vedere, siamo dei poveretti. Non abbiamo la realtà in pugno. E la natura è una povera creatura come tutti, ferita dal male. Dio non manda l’alluvione, noi lo accusiamo e invece dovremmo cercarlo. E Lui parla e parla sempre in positivo.

Eppure in questa fase ancora emergenziale del soccorso si vede in modo molto chiaro che non è solo il cristiano a prodigarsi perché ha imparato a memoria «ama il prossimo tuo». Ci sono tantissime persone che sono lontanissime dall’esperienza cristiana e si spaccano la schiena per gli altri. Quindi la misura del donarsi è proprio scritta dentro di noi?

La realtà è posta lì per noi, è amica. Diventa nemica quando ce ne vogliamo impossessare. In questo momento difficile non possiamo impossessarci della realtà perché ci sovrasta, allora emerge il vero bisogno dell’uomo: quello di donarsi. È una legge della vita. Normalmente, se non c’è qualcosa che ci provoca, noi ci adagiamo. L’onda anomala ti schioda dall’inerzia, devi cominciare a muoverti e a nuotare. E scopri che sai nuotare. In questa circostanza difficile l’uomo scopre che è fatto di bene ed è fatto per il bene. E scopre anche che quando si dona è più contento. La parola che sento di più in giro è «grazie». Lasciata a se stessa questa mossa buona dura solo per un po’, ed è qui che entra in gioco il cristianesimo. Cristo è colui che ti dà la forza per continuare a donarti e per domandarti: perché sto facendo questo? Tutti si donano, quello che il mondo non sa fare è di giudicare e trattenere cosa sta facendo. Se non c’impegniamo in un’educazione dell’io e del popolo, fra due mesi saremo di nuovo come prima. Il vero bisogno non è quello di risistemarci e tornare a imborghesirci, ma di tenere sveglio l’io.

Uno dei primi giorni dell’alluvione ho incontrato un’infermiera che mi diceva: «Dov’è Dio?», e ci teneva a sottolineare che era atea. Le ho detto che non c’era problema, perché la fede non è un prodotto che si acquista al supermercato, e le ho suggerito di guardare fino in fondo tutto quello che aveva attorno. Ieri sera mi ha mandato questo messaggio: «Ho deciso di far entrare il Signore nel mio cuore, perché gli avevo sempre chiesto di darmi dei segni evidenti che Lui fosse con me e direi che in questi cinque giorni me ne sta dando tanti». I segni che ha visto sono un punto di bellezza in azione, come ad esempio i ragazzi di Gs che sono sempre disponibili a lavorare, soprattutto quelli di quinta superiore che sono prossimi alla maturità eppure hanno faticato notte e giorno senza pause. Sono stato io a dire loro di fermarsi e andare a casa.

La Chiesa non è in crisi perché la gente non va più a Messa, è in crisi perché i cristiani non vanno più nel mondo. Sto tutto il giorno accanto ai volontari della Protezione civile e della Croce rossa, li spiazzo perché hanno un’idea di prete stereotipata. Sai qual è il mio compito assiduo con loro? Portare e distribuire le sigarette. Perché anche quello è un bisogno di cui accorgersi, considerando che stanno chiusi tutto il giorno in un palazzetto e devono tenere a bada una grossa tensione.

Però anche tu come sacerdote starai vivendo queste settimane difficili non con la tranquillità beata di chi è a posto e ha la verità in tasca. È capitato che proprio l’alluvione ti abbia permesso di incontrare qualcuno a cui prima non eri arrivato?

Sto facendo tantissimi incontri, mi segno i nomi di tutti e scopro anche gente della mia parrocchia con cui non avevo mai parlato. A ciascuno dico: «Ti verrò a trovare». È come se in questi giorni, nel buio in cui viviamo, si fosse acceso un fiammifero. Però dopo pochi secondi il fiammifero ti brucia le dita e si spegne. Quando ho in mano un fiammifero acceso devo guardare dove posso alimentare un fuoco. Perciò questo momento ci offre una grandissima opportunità, ma non di bene. Il mio scopo non è fare del bene, io desidero che attraverso questa circostanza la gente possa scoprire cosa dà senso alla vita. Se riusciremo a dar gloria a Dio saremo forse più poveri, perché lo saremo, ma saremo più ricchi in ciò che conta.

C’è un signore anziano che ha la casa nel punto in cui il fiume ha rotto l’argine. Si tratta di un mulino secolare e l’alluvione ha portato via tutta la facciata della casa, il prefetto ha poi dato ordine che tutto l’edificio fosse abbattuto perché in quel punto occorrerà lavorare per ripristinare l’argine. Quando gliel’hanno detto, e lui ha 93 anni, ha fatto questa battuta: «Forse sono più fortunato degli altri perché non dovrò mettermi a ripulire casa». Sono andato a trovarlo dopo che era stato portato via da dove ha vissuto una vita intera e mi ha detto: «Ho perso tanto, ma le cose indispensabili non le ho perse». Si riferiva alla fede e ai figli. Il suo tono non era rassegnato, è uno che ha capito cosa ci tiene davvero in piedi.

Rispetto a questo c’è una narrazione molto facile e prevalente: il romagnolo tenace e allegro in mezzo al disastro. Si urla ai quattro venti «ricostruiremo meglio di com’era prima», come se fosse una strada lastricata di entusiasmo e voglia di prodigarsi. Ci sarà un trauma enorme con cui tutte le persone colpite dovranno fare i conti, una volta finita l’adrenalina da emergenza e senza più i riflettori intorno. Al di là degli slogan, da dove si comincia a ricostruire?

È come quando in mezzo alla pandemia si diceva «andrà tutto bene». Perché dovrebbe andare tutto bene? C’è un proverbio sbagliatissimo che dice: «L’uomo propone e Dio dispone». È vero il contrario. Dio propone e propone la felicità, poi ciascuno dispone cosa vuol fare della sua vita attraverso l’intelligenza, la libertà e il cuore. Qualche sera fa una mamma mi ha mandato un messaggio dopo che avevamo fatto un momento di preghiera. Ha dei figli adolescenti e scrive: «Tutto ciò che accade non è una tragedia o una disgrazia. Siamo davvero benedetti, ringraziamo per tutto ciò che abbiamo. I nostri ragazzi sono un dono per noi e possiamo essere solo certi che una cosa sicuramente abbiamo fatto bene: averli portati al Battesimo a un mese d’età e averli educati all’unica strada che è la bella felicità della vita eterna».

Questo è il punto della vera ricostruzione ed è l’educazione. Nella realtà c’è il bene e c’è il male, ma non è automatica la scelta. Non è detto che un seme diventi un albero, può seccarsi o marcire. E senza la Chiesa chi è che salva il cuore dell’uomo? I problemi che viviamo sono delle provocazioni e Gesù diceva: «A chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Cosa bisogna avere? Una domanda grande e vera di senso. Una mattina ho incontrato in chiesa una signora che lavora al Consorzio della bonifica, ente che sta gestendo tutta situazione di crisi. Era sconfortata, mi ha detto che era venuta a pregare per capire cosa fare e per caso ha incontrato me. Per caso? Le ho detto che funziona così: preghiamo non per avere un’illuminazione interiore, ma perché pregando Dio ci fa incontrare dei segni sulla strada. Bisogna avere l’umiltà di andare dietro a questo.

Sicuramente c’è da approntare un piano strategico per preservarci da questi drammi, ma prima dobbiamo salvare l’io. Se l’Europa è un continente non lo è dal punto di vista geografico, ma dal punto di vista culturale. Quando qui era tutto barbarie, c’è stato chi – i cristiani – ha cominciato a costruire. Bonificavano la terra perché il loro cuore era già stato bonificato da Cristo. Questo ha edificato la civiltà. Anche oggi non abbiamo bisogno solo di spalare e sistemare, ma di giudicare quel che ci è capitato. Se il nostro cuore non cambierà, resteremo dei poveretti anche se abbiamo ricevuti i sussidi dello Stato.

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