Dite quel che volete, ma Obama ha vinto grazie a capitalisti, conservatori e shale gas

Dite quello che volete, ma la rielezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti è un caso esemplare di paradosso storico. Il paradosso è rappresentato dal fatto che a creare le condizioni che potrebbero innescare quello che Giuliano Ferrara ha definito «un ciclo strategico di egemonia liberal» non sono stati fattori e soggetti sociali univocamente ascrivibili al campo del progressismo e della modernizzazione. Al contrario: a far vincere Obama sono stati elettori che incarnano un grado più o meno alto di conservatorismo sociale e morale e fattori economici legati agli “spiriti animali” del capitalismo americano, non certo ai “nuovi stili di vita” non consumistici o alla “new economy” delle energie alternative.

Dei tre principali gruppi di popolazione che compongono gli Stati Uniti dal punto di vista razziale – bianchi, afroamericani e ispanici -, quello più secolarizzato è senz’altro quello dei bianchi. Eppure fra loro ha prevalso Mitt Romney, mentre il 90 per cento degli afroamericani e il 70 per cento degli ispanici hanno votato Obama. Certamente i latinos di oggi non sono tutti machisti e omofobi come li si sarebbe potuti descrivere cinquant’anni fa, né gli afroamericani sono tutti antiabortisti giurati, ma indubbiamente le loro opinioni sono statisticamente meno favorevoli a cose come il matrimonio fra persone dello stesso sesso, il consumo ricreativo di marijuana o l’aborto su richiesta di quanto non lo siano fra i bianchi. Eppure nel segreto dell’urna hanno scelto in massa un presidente abortista, che costringe le Chiese a pagare gli anticoncezionali ai dipendenti e che fra un’elezione e l’altra ha cambiato parere sui cosiddetti matrimoni omosessuali, passando da contrario a favorevole. Sul loro voto hanno pesato di più le loro esigenze e preoccupazioni in materia di assistenza sociale, sanità assicurata ai più poveri, diritti degli immigrati, temi sui quali Obama ha fatto o è riuscito a far credere di aver fatto e di poter fare più dei repubblicani.

L’altro aiuto paradossale alla rielezione di Barack Obama è arrivato dal nuovo boom dell’industria dell’energia: non quella delle fonti alternative, da anni vezzeggiate da ogni candidato democratico alla presidenza, ma quella dei cari, vecchi, maledetti idrocarburi. Non tutti lo sanno, ma negli ultimi quattro anni gli Stati Uniti sono passati attraverso una rivoluzione nella produzione dell’energia che li ha fatti diventare il primo produttore mondiale di gas e che ha reso realistica la prospettiva di un’America autosufficiente per quanto riguarda l’energia. Fino a quattro anni fa, gli Usa producevano meno dei tre quarti di tutta l’energia che consumavano, ma dopo la valorizzazione economica del gas da scisti grazie alla tecnologia di trivellazione detta del “fracking”, sono già balzati all’84 per cento e nel 2020 potrebbero arrivare al 100 per cento.

Il gas da scisti produce grosso modo la metà della Co2 prodotta dal carbone e dal petrolio, ma si tratta comunque di un idrocarburo, e la tecnologia che ha reso possibile la sua valorizzazione – l’immissione di acqua ad alta pressione miscelata a uno 0,5 per cento di reagenti chimici negli strati profondi, così da ottenere la frantumazione delle rocce e la fuoriuscita del gas attraverso le crepe – è denunciata come pericolosa per l’ambiente da molti gruppi ecologisti. In Europa è stata vietata in Francia e in Bulgaria, mentre la Germania non ha mai concesso i permessi per passare dall’utilizzo sperimentale a quello per lo sfruttamento economico dei giacimenti. Non solo: il boom del gas da scisti negli Usa è stato reso possibile dal capitale di rischio dei piccoli “developers” che si sono lanciati nella mischia con pochi mezzi e procedimenti sul filo della legalità, contando molto sulla disponibilità dei proprietari di terreni a lasciar fare, oliata dalla prospettiva di incassare ricche royalties (negli Stati Uniti non esiste il monopolio statale sulle risorse minerarie, il proprietario di un terreno può vantare i massimi diritti sulle risorse minerarie sottostanti). Se il dato di ottobre sui nuovi posti di lavoro creati dall’economia americana è stato positivo e ha contribuito alle chances di rielezione di Obama, moltissimo si deve all’industria dello shale gas, che ha permesso la creazione di 484 mila posti di lavoro fra il 2009 ed oggi.

A questo punto è facile immaginare che questo schema politico potrebbe ripresentarsi in Europa. In Italia e in Germania le sinistre caldeggiano la concessione generosa della nazionalità agli immigrati, a cominciare dai figli nati in territorio europeo, per alterare la composizione demografica dell’elettorato immettendo nuovi votanti che alle elezioni dovrebbero mostrare la loro gratitudine per chi ha riconosciuto loro diritti che prima non avevano. Le ricorrenti campagne del presidente Giorgio Napolitano per la sostituzione dello ius soli allo ius sanguinis nella legislazione italiana in materia si spiegano anche così. A quel punto avremmo la ripetizione in forma maggiorata del paradosso americano: elettori di origine nordafricana che nel privato magari confinano le donne in casa e organizzano matrimoni combinati per figlie e nipoti, ma che in campo politico sostengono partiti favorevoli all’equiparazione di matrimoni e convivenze e alla fecondazione assistita eterologa.

L’ondata di egemonia politico-culturale progressista troverebbe una spinta decisiva negli elementi più socialmente conservatori della Nuova Italia. Quanto poi sarebbe sostenibile questa egemonia, non è tanto facile da prevedere. Chi continua a fidarsi delle teorie della secolarizzazione, che considerano irreversibile la marginalizzazione del ruolo pubblico della religione e della morale tradizionale, sembrano non calcolare il potenziale disgregativo dei “nuovi diritti”. I quali hanno un effetto centrifugo non solo su cose come le relazioni familiari, i rapporti affettivi, ecc. Ma anche sulle stesse istituzioni politiche.

Su El Paìs dell’8 novembre si possono leggere pagine e pagine di lodi alla nuova America di Obama, che torna a far sognare in tema di giustizia sociale, diritti civili e autodeterminazione degli individui. Salvo poi imbattersi, a pagina 35, in un lungo commento che critica il «simplismo de la solución autodeterminista» e afferma che «la autodeterminación no es un derecho jurídico importable, ni tampoco un derecho moral». Come, i progressisti di El País mettono in discussione l’architrave dell’ideologia moderna? Cominciate a leggere il pezzo, e scoprite che si sta parlando della pretesa della Catalogna di fare secessione dalla Spagna. Prospettiva che fa venire i sudori freddi a proprietà, direzione e redazione del quotidiano madrileno di sinistra. Ma chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Si comincia disgregando famiglie e matrimoni, e si finisce disgregando Stati e società.

@RodolfoCasadei

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