Dat. Di cosa abbiamo bisogno e di cosa non abbiamo bisogno noi medici

«Come medico che ha accompagnato più di mille malati. Non serve una legge sulle Dat ma la necessità di imparare a costruire, fin dalla diagnosi, un Piano Anticipato di Cure»

Egregio direttore, sono un medico oncologo e da anni mi occupo di cure palliative. Sono rimasto colpito dalla discussione in atto circa la legge sulle Dat, e desidero offrire il mio contributo, come medico e come familiare.

In primo luogo, come medico che ha accompagnato più di mille malati: nella mia equipe assistiamo malati complessi, affetti da cancro ma non solo; sono pazienti che assumono molti farmaci, spesso hanno molta sofferenza, fisica e psicologica, e spesso – non sempre – hanno un’aspettativa di vita breve, di poche settimane.

In secondo luogo come familiare: quando tocca a te comunicare ai tuoi cari che hanno un cancro, solo perché tu sei il parente medico; quando tocca a te ascoltare un tuo familiare, che ti guarda negli occhi e ti chiede: “È la mia fine?”, allora tutte le tue certezze professionali e la tua sicumera si sciolgono, e ti trovi, forse più degli altri, a corto di parole e con una sofferenza che non sai gestire.

In questo ambito ci sono, secondo me, alcune cose di cui non abbiamo bisogno, e altre di cui abbiamo necessità.
Non abbiamo bisogno di leggi che ci impediscano di utilizzare i farmaci giusti per alleviare le sofferenze dei nostri pazienti: le limitazioni che ci sono, come ha evidenziato la dottoressa Turriziani (già presidente della Società Italiana di Cure Palliative) in un articolo pubblicato nel 2013, non ci aiutano.

Abbiamo necessità di modificare le regole, senza spese aggiuntive, per avere la possibilità di prescrivere farmaci in dosi più elevate, per tempi più lunghi, con indicazioni diverse da quelle “ufficiali”, con vie di somministrazione adesso vietate. La letteratura scientifica è dalla nostra parte; le leggi, non sempre.

Non abbiamo bisogno delle Dat per sospendere la nutrizione, l’idratazione, la ventilazione meccanica, la dialisi, le trasfusioni, quando non sono più utili o sono nocive: lo facciamo già, ogni giorno. Parte del nostro lavoro, condotto rispettando scrupolosamente la Legge, consiste nel capire se una terapia, che è un mezzo di sostegno vitale ordinario e proporzionato, sia diventata, per il signor Mario Rossi, una terapia purtroppo inefficace o sproporzionata; allora cerchiamo di aiutare il signor Rossi e i suoi familiari a capirlo, e a permetterci di sospenderla. Senza imporci; ma senza mentire.

Abbiamo invece necessità di una formazione specifica, per aiutarci a capire che i malati hanno bisogno di sapere la verità sulle proprie condizioni: una verità “sopportabile e progressiva”, comunicata con delicatezza e professionalità. Con quel tatto e quella partecipazione che, molte volte, noi medici vediamo e invidiamo negli infermieri.

Non abbiamo bisogno delle Dat come documento obbligatorio e vincolante per i sanitari: perché, se è troppo generico, sarà impugnato, e dovremo farci dire da un giudice cosa è “accanimento” e cosa non lo è; se il documento è troppo specifico, sarà inutile in breve tempo, perché la Medicina avanza in fretta.

Abbiamo invece necessità di imparare a costruire, fin dalla diagnosi, un Piano Anticipato di Cure: un percorso di continua condivisione, con il paziente e con i suoi familiari, della situazione, delle possibilità, dei rischi connessi alla terapie – per decidere in anticipo, a mente fredda, senza farsi guidare dalla paura. E il Pac deve essere costruito per ogni paziente che soffra di una malattia grave, che lo porterà alla morte o in una situazione di handicap grave: non solo il cancro, ma anche la Sla, l’insufficienza renale, l’Alzheimer.

Non abbiamo bisogno di persone che ci parlino della “autonomia” dei malati, perché, nei Paesi occidentali, la percentuale di pazienti che hanno informazioni scarse sulla loro malattia e sulla morte che sta per coglierli può superare il 60%. E non solo in Italia.

Abbiamo invece necessità di tempo, tanto tempo, per dedicarci ad ogni singolo malato, ascoltare le sue paure, rispondere alle sue domande o, semplicemente, dire con onestà: “Non lo so”. E il tempo per comunicare deve essere conteggiato e riconosciuto come cura, come una voce specifica delle attività del Ssn.

Non abbiamo bisogno che ci ricordino che assistere i malati è una cosa buona e doverosa, né vogliamo che la sofferenza dei malati sia – come saggiamente diceva alcune settimane fa Marco Maltoni – “strumentalizzata”, in un senso o nell’altro.

Abbiamo invece necessità che la Cure Palliative escano dalla sfera delle “cose buone” e siano riconosciute, come già in molti Paesi, tra le Specializzazioni post laurea per i medici. E se siamo senza docenti, possiamo serenamente chiamarli dall’estero: molti di loro vengono già in Italia, a tenere lezioni e corsi, quindi potranno essere arruolati con facilità. Il master ASMEPA, a Bentivoglio, ne è un esempio.

Abbiamo necessità di offrire ad ogni malato, come diceva uno dei miei Maestri, “la possibilità di morire senza dolore, senza sporcizia, circondati da coloro che li amano, e possibilmente a casa loro”. Io aggiungo: “con il cuore leggero”.

Fino ad oggi abbiamo combattuto questa battaglia da soli; adesso, vorremmo che la società civile ci aiutasse. Con una legge diversa da quella che stanno discutendo in Parlamento.

Cordialmente,
dottor Andrea D. M. Manazza
Specialista in Oncologia, Palliativista

Foto Ansa

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