Dal Texas all’Italia la giovane rivoluzione del Tea Party

A Dallas una folta delegazione italiana ha partecipato al raduno del "popolo del Tè": tra sussidiarietà e big society, il racconto di uno dei partecipanti.

È stato un Luglio caldo per il Tea Party, dopo che negli ultimi mesi i media americani avevano ormai decretato la morte del “popolo del Tè”: nato nel 2008 da una serie di proteste contro i dissennati sperperi di soldi pubblici dell’amministrazione Bush e diventato nel giro di due anni una potente lobby di pressione e un diffusissimo movimento di popolo, in grado di stravolgere completamente il Partito Repubblicano e l’intero assetto politico statunitense, il Tea Party si era trovato spiazzato nelle recenti primarie presidenziali, non trovando una vera figura di riferimento in nessuno dei candidati. Questa momentanea debacle è sembrata a molti un motivo sufficiente per trarre un respiro di sollievo, che si è mostrato tuttavia prematuro.

Dalla città di Dallas, Texas, è infatti partito il rilancio del movimento, che con l’evento FreePAC del 26 luglio ha fatto sapere, parafrasando Mark Twain, che “le notizie sulla sua morte erano largamente esagerate”: Ted Cruz, il candidato al Senato a cui l’evento è stato dedicato, è passato da uno svantaggio elettorale di 11 punti percentuali ad una vittoria schiacciante, e le parole d’ordine della serata hanno dominato a lungo le classifiche sui social media.

Ma la vera star della serata, sorprendentemente, non è stata Cruz: sono stati i ragazzi (tra cui chi vi scrive) invitati a testimoniare della diffusione del movimento in ben 20 nazioni, diversissime dagli Stati Uniti per storia, cultura e realtà politica. Tra le delegazioni (provenienti anche da luoghi “insospettabili” come Giappone, Australia, Serbia, Israele) la più nutrita era proprio quella italiana, che è stata accolta sul palco con un affetto davvero sorprendente dai 15 mila militanti radunati a Dallas. A spiegare la nascita di un movimento globale, in risposta a un pericolo statalista anch’esso globale, sono stati due dei più celebri animatori del Tea Party americano: Matt Kibbe e Glenn Beck.

Quest’ultimo, celebre commentatore televisivo e radiofonico (considerato da alcuni una sorta di “predicatore laico” della destra cristiana a “stelle e strisce”), ha poi invitato l’intera delegazione all’ancora più impressionante evento del 28 Luglio: il Restoring Love, tenutosi nel celebre Cowboys Stadium di Dallas sotto gli occhi di oltre 80 mila persone. Non si trattava, in questo caso, di un raduno politico, ma dell’incontro-culmine di una vastissima opera di “caritativa”, nel contesto della quale centinaia di migliaia di americani hanno dedicato un’intera settimana ad aiutare gli altri, preparando e distribuendo cibi caldi, trasportando infermi, fornendo assistenza di vario tipo, oltre che donando un contributo economico per progetti a lungo termine.

Cosa c’entra tutto ciò con il movimento Tea Party, dipinto dai media di tutto il mondo come una folla di «ricconi egoisti, avari e asociali, magari pure un po’ razzisti e nemici del progresso sociale»? C’entra! Il punto di contatto è il concetto che in Italia chiamano sussidiarietà, e in Regno Unito big society: proprio chi ha una maggiore attenzione alla solidarietà, alla carità, all’assistenza di chi ha bisogno, non può permettere che queste realtà vengano monopolizzate da quella macchina inefficiente, centralista, corrotta, ideologizzata e disumanizzante che è la burocrazia statale, basata sulla coercizione della redistribuzione tramite il prelievo fiscale. Da sempre, chi si batte per una società più libera e meno sottoposta all’invadenza statale sostiene che anche i più poveri avrebbero da guadagnarne, ma Glenn Beck ha ribaltato questo paradigma: al motto «Vogliamo pagare meno tasse, e possiamo tranquillizzarvi sul fatto che la società si prenderà cura dei più deboli anche senza l’intervento pubblico», lui preferisce un più positivo «Vogliamo prenderci cura dei più deboli, e proprio per questo dobbiamo impegnarci in prima persona, in modo libero e responsabile, senza che lo stato ce lo impedisca drenando le nostre risorse in un pozzo senza fondo di irresponsabilità e pianificazione centrale». Una rivoluzione copernicana, di cui prendere nota anche per l’Italia.

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