Dai Duran Duran agli U2 ai Daft Punk: per ogni cosa c’è una playlist, questa mi riconcilia con il passato

Tutti hanno una playlist per tutto: “per quando vado a correre”, “per quando faccio i mestieri”, “mentre aspetto il mio turno dal dentista”, “per sentirmi ancora ventenne”. La seguente è quella che mi riconcilia col passato, cioè col senso di colpa – sì – che mi viene se penso al tempo che mi separa dall’ultima volta che ho ascoltato un album per intero o sono stata a un concerto: troppo. Non tanto per soffiare via un po’ di polvere dalla copertina, ma perché se una cosa è bella c’entra sempre con chi sei tu ora. Quindi: ecco cosa potrebbero significare oggi le canzoni di allora.

Tasto play.

Track 1. Duran Duran – “Rio”. 1985: insieme alla grande nevicata che ci ha fatto rimanere tutti a casa da scuola per un bel po’, in casa mia arriva la musica sotto forma di musicassetta (eh già) del primo vero fenomeno teen-idol che viene dall’Inghilterra dopo i Beatles. E per mano delle mie sorelle (più grandi di me di sette e sei anni), di cui vivo l’adolescenza, anche e soprattutto grazie ai Duran Duran, prima di vivere la mia. Poi un giorno dalle pagine di un giornale vedo un Simon LeBon impaurito e spettinato scendere dalla barca con cui ha avuto un incidente nautico che ha tenuto il mondo col fiato sospeso: a terra lo aspetta una ragazza mora con una coperta in mano (una ragazza caruccia, per altro, leggi: “top model”). Si sono sposati quell’anno e lo sono ancora (quindi lo sono da 28 anni) e hanno avuto tre figlie. Simon era uscito dalla bidimensionalità dei poster ed era entrato nella tridimensionalità della vita vera. Anche le pop star a un certo punto metton su famiglia.

Track 2. Depeche Mode – “Everything Counts”. Alba degli anni ’90, mi emancipo da quel che ascoltano le mie sorelle, sono teenager anch’io, ecchecavolo. Nel jukebox del baretto in riva al lago che frequento coi miei amici lascio non so quanti gettoni per ascoltarla. È il “mio” primo vero gruppo, e forse, in fondo in fondo, lo è tuttora. Più tardi nel loro video di “Personal Jesus” vedo una ragazza (s)vestita da spagnola sexy. Annuncio a mia madre che quell’anno a Carnevale mi vestirò così. Lei mi annuncia che non se ne parla. Tra me e mia madre, con la quale fino a quel momento non c’erano stati grandi scontri, si interpongono a sorpresa i Depeche Mode. I gruppi musicali servono (anche) a mettere in discussione da dove si viene. Ma la domanda vera rimane: dove si va? Ho sette anni, tanti quanti separano la primogenita dai suoi 13 anni, per meditare una risposta valida da dare.

Track 3. U2 – “One”. Quando al liceo una mia compagna di classe mi ridiede il diario dopo aver visto che c’erano scritti su i loro testi e mi fece quello sguardo sbilenco e compassionevole insieme tipo «Ma sei ancora lì? Guarda che è già arrivato il GRUNGE!», ecco, lì mi sono un po’ sentita inadeguata, come seduta su una poltrona comoda a guardare gli altri che ballavano e si divertivano a una festa. Col tempo ho rivalutato quella posizione, quell’arrivare abbastanza dopo per essere ancora sul pezzo ma non troppo per essere additata come ritardataria, in cui tutti si sono infoiati e forse già stufati per quella “moda” e tu hai avuto il tempo per gustartela in un angolino e quando decidi di dire la tua a riguardo la tua freschezza viene salutata non come “l’ultima-cosa-detta-su” in ordine di tempo, ma la migliore, “la-più-profonda”. Anche coi figli ci ho messo un po’ a capire cosa significasse che loro erano al mondo, quindi: non scoraggiatevi neo-mamme super-goffe, il bello deve ancora venire. E gli U2? Loro son sempre lì, grandiosamente seduti in poltrona che aspettano il prossimo ballo.

Track 4. The Hole – “Rock Star”. Si può essere contemporaneamente rockstar, mamma, moglie di un’icona mondiale e attrice che in un paio di film sfiora la nomination all’Oscar? Sì, se ci si chiama Courtney Love. Non voglio parlare del di lei marito, quell’uomo che, morto, mi fece andare a scuola (quarto anno del liceo) vestita di nero per una settimana. Ma di lei, lei che ancora c’è. Lei che scrive canzoni bellissime e altre assolutamente dimenticabili. Lei grassa e sfatta, lei magra e sfatta. Lei ex-tossica che pubblicizza sigarette elettroniche. Lei che adora la figlia e gliela tolgono poi gliela ridanno poi appena quella ha 18 anni se ne va con le sue gambe ma ora si twìttano che è una meraviglia. Insomma, quale che sarà il modo di comunicare mio e della mia prole un dì – twitter, FB, segnali di fumo o a tu per tu – anch’io vorrei poter dir loro: «Non guardate gli esiti alterni, ma la tenacia». Se poi mi capitasse di scrivere un equivalente in letteratura di “Live Through This” (album da cui questa canzone è tratta), non sarebbe male.

Track 5. Blur – “Girls & Boys”. Università, davanti a una fotocopiatrice, non ci avevo mai parlato prima, ma non ci mi è voluto poi molto coraggio per chiederle: «Verresti con me al Festival di Reading in Inghilterra?». Al Festival di Reading non ci siamo mai andate, ma una grande storia era iniziata. Che si è snodata nel tempo e negli eventi. Nelle parole come nei silenzi. In un’unica strada dai diversi sentieri. E che mi ha svelato i segreti del Brit-pop. A fine luglio i Blur suonano a Milano e le ho chiesto se ci andavamo insieme, ma quel giorno deve andare a recuperare i figli che sono al lago coi nonni. E, ora che ci penso, forse anch’io sarò impegnata in weekend “a tutto famiglia”. Giusto un paio di sospiri alla cornetta quando ne abbiamo parlato. Eh già. Questo di sicuro lo auguro ai miei figli: l’amicizia.

Track 6. Bluvertigo – “La crisi”. «Molto spesso una crisi è tutt’altro che folle /è un eccesso di lucidità /sta finendo la crisi e ogni volta che passa una crisi /resta qualche traccia./Infatti ultimamente rido per niente /e non mi nascondo più facilmente /e malgrado sembri male /cambia solo il modo di giudicare».

Track 7. Madonna – “Ray of Light”. Troppo piccolo un paragrafetto per contenerla. Diciamo che questa è la canzone (e l’album) post-partum. Che ci ha fatte tutte un po’ sognare, prima di Belén, che “dopo” si potesse essere così. Che ci ha rassicurato sul fatto che non sarebbe scomparsa per dedicarsi alla famiglia (qualcuno l’aveva mai temuto?), anche se l’ha fatto, dedicarcisi, a modo suo: vietando a Lola la tv («Che brava!») per poi catapultarla poco più che 15enne nel fashion business con una sua linea on-line dal nome vagamente autoreferenziale, “Material Girl” («Che matta!»). Che ci ha mostrato, per una manciata di scatti “struccata” di quel periodo, un’incursione della donna nel personaggio. Alla fin della fiera, l’ineluttabilità della realtà ha prevalso anche su lei: “dopo”, al di là del ventre piatto (suo) o meno (mio), qualcosa cambia (non tutto).

Track 8. Radiohead – “No Surprises”. A me loro piacevano di più in questo periodo che in quello di questa canzone. Ma questa mi è rimasta in mente, insieme alle millemila mosche finite quella sera nella bocca di Thom York («Flies, flies, flies!»), quando l’hanno cantata al concerto del 2003, perché lì ero insieme al ragazzo di cui ho pensato nitidamente sotto il cielo di Bergamo: «Questo me lo sposo». E infatti (otto anni oggi). Ma sì, Radiohead, anche se ve la menate un po’ troppo, messa così mi state un po’ simpatici pure voi, perché mi ricordate quel momento, in cui ho assaporato la bellezza confortante e liberante dell’infinito che mi tendeva una mano.

Track 9. Eddie Vedder – “OST Into The Wild”. Il periodo del lavoro, dello scrivere di film, dei caffè coi colleghi. Alcune pellicole ci hanno messo d’accordo, come questo, di cui linko il video di una sola canzone dell’Original Soundtrack, ma quest’ultima è tutta stupenda. Che magica alchimia quando immagini e note si sposano perfettamente, ti fanno andare con la testa altrove, cioè ti inchiodano lì dove sei, a quell’istante, lo ribaltano, te lo fanno vedere per cos’è davvero, e per questo, e nessun altro sentimentalismo, diventano eterni e tu con loro. Ah l’arte, ah figli: abbeveratevene!

Track 10. Daft Punk feat. Pharrell. – “Get Lucky”. Boom, piombiamo nell’immediato con quella che ora come ora vorrei come mai sigla personale quando entro in una stanza (come Benigni, che come entra a cavallo all’Ariston a Sanremo o in qualsiasi altro posto parte la “sua” marcetta de La vita è bella). Ma non sono la sola: da Nicole Kidman al mio amico giornalista passando per l’intellettuale radical chic fino al primo che passa per strada, tutti twittano/dicono quanto bella sia. Capisci che è “la più” perché tutti vogliono farla loro: quelli che la ricantano, quelli che ci scrivono su, quelli che realizzano stupendi montaggi e li postano su youtube come quello in cui Obama la canta. A quante canzoni-del-momento stanno per andare incontro i miei, i nostri figli. Saprò capire perché piace a tutti, loro compresi (o forse no, chissà)? Forse sarò troppo impegnata a mettere insieme la playlist del 2028. Spero.

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