Costruttori di pace (dimenticati)

A cento anni dalla fine della Grande Guerra i leader europei continuano a guardare al proprio interesse particolare anziché a quello generale.

Articolo tratto dal numero di Tempi di dicembre (attenzione, di norma l’accesso agli articoli del mensile è riservato agli abbonati: abbonati subito!)

L’esercito europeo non si farà. Checché ne dicano Emmanuel Macron e Angela Merkel. Anche se Vladimir Putin si dice entusiasta dell’idea. Proprio perché Vladimir Putin s’è detto entusiasta dell’idea, l’esercito europeo non si farà. Non perché il presidente russo sia il cattivo per antonomasia rispetto al quale bisogna sempre posizionarsi all’incontrario. Niente di personale: qualunque capo di Stato russo al suo posto avrebbe avuto la stessa reazione, perché la Russia ha bisogno che l’alleanza politico-militare fra Stati Uniti e Unione Europea si indebolisca per pesare di più in Europa, e la creazione di un vero esercito europeo (sia Macron che la Merkel ci hanno tenuto a usare l’aggettivo “vero” per sottolineare che stavano parlando seriamente) svolgerebbe proprio la funzione di dividere le forze occidentali, di allargare l’Atlantico, incrementando automaticamente il potere di condizionamento russo sull’Occidente. Tanto più che il presidente francese ha introdotto la proposta durante un’intervista televisiva del 6 novembre scorso con la più maldestra delle dichiarazioni, nella quale ha elencato fra le potenziali minacce da cui l’Europa dovrebbe difendersi la Cina, la Russia e… gli Stati Uniti! L’Eliseo ha parlato di un equivoco, ma la dichiarazione, con tanto di riferimento a Donald Trump che con la denuncia del trattato sui missili a corto e medio raggio metterebbe a rischio la sicurezza europea, è stata pronunciata veramente. Dopodiché, il presidente americano ha reagito definendo le parole di Macron «molto insultanti» e invitando tutti gli europei a versare piuttosto una quota di partecipazione maggiore ai costi della Nato. Invece il presidente della Russia, collocata al secondo posto prima degli Usa nella classifica delle potenziali minacce alla sicurezza europea, se ne è uscito con complimenti che sono il “bacio della morte” per qualunque “vero” esercito europeo: «L’Europa è una potente unione economica ed è naturale che voglia essere indipendente e sovrana nel campo della difesa e della sicurezza, (…) rafforzerebbe il mondo multipolare».

Qualcuno può seriamente credere che due volponi come Macron e la Merkel siano improvvisamente diventati degli ingenui che fanno il gioco, geopoliticamente parlando, della Russia? Evidentemente no. E allora l’unica spiegazione razionale è che l’esercito europeo non sarà mai “vero”, ma sarà il pretesto che serve a stanziare un po’ di fondi europei a vantaggio delle industrie degli armamenti francesi e tedesche, in affanno nella competizione con quelle americane, britanniche ed italiane. I contratti che la Dassault sperava di fare con la Libia post-Gheddafi, e che non si sono materializzati per il caos perdurante e le sanzioni internazionali alle vendite di armi ai libici, li potrà concludere per il fantomatico esercito europeo; la Germania potrà continuare a mantenere in vita le sue linee di produzione di armamenti obsoleti e non più conformi agli standard Nato, come quelle dei suoi cacciabombardieri Tornado, semplicemente imponendo i propri standard come quelli di riferimento per l’esercito europeo. Insomma, una recita a cui abbiamo già assistito tante volte: la solita logica bottegaia tedesca e la solita ipocrisia francese travestite da europeismo. Con in più il cattivo gusto di evocare una sfida russo-cinese-americana alla sicurezza europea alla vigilia delle celebrazioni del centenario dell’armistizio di Compiègne che l’11 novembre 1918 mise fine alla Prima Guerra mondiale: a quelle cerimonie avrebbero preso parte anche i capi di Stato di Usa e Russia.

Del discorso che Emmanuel Macron ha tenuto in quell’occasione all’Arco di Trionfo le cronache hanno riferito quasi soltanto il passaggio che rappresentava uno schiaffo a Trump e ai sovranisti, nel quale il presidente francese pretendeva di contrapporre patriottismo e nazionalismo: «Il patriottismo è l’esatto contrario del nazionalismo: il nazionalismo ne è il tradimento. Dicendo “i nostri interessi prima di tutto, cosa ci importa degli altri!”, si cancella ciò che di più prezioso una Nazione ha, ciò che la fa vivere (…): i suoi valori morali». Un’operazione velleitaria in riferimento agli avvenimenti della Prima Guerra mondiale (dove è ben difficile districare il patriottismo dal nazionalismo) e ipocrita se riferita alle politiche della sua amministrazione: la Francia che sabota gli sforzi Onu in Libia per ritagliarsi vantaggi per sé, che ostacola l’operazione italiana in Niger, che esecra la politica anti-sbarchi dell’attuale governo italiano ma chiude le frontiere ai migranti che dall’Italia vorrebbero entrare in territorio francese fa pensare più al nazionalismo che al patriottismo.

Cessate le ostilità

C’è un altro passaggio del discorso di Macron, da nessuno notato, che merita la matita blu. Là dove dice: «A partire dal 1918, i nostri predecessori hanno tentato di costruire la pace. Hanno immaginato le prime cooperazioni internazionali, hanno smantellato gli imperi, riconosciuto molte Nazioni e ridisegnato le frontiere; in quel momento hanno anche sognato un’Europa politica». Non è vero. Gli sforzi per fermare la guerra e costruire la pace sono cominciati quando i combattimenti erano in corso, così come sono state immaginate riforme che avrebbero permesso di costruire un’Europa politica senza necessariamente smantellare gli imperi. E portano i nomi soprattutto di due personalità: Giacomo Paolo Giovanni Battista Della Chiesa, papa col nome di Benedetto XV, e Karl Franz Josef von Habsburg-Lothringen, ultimo imperatore austro-ungarico col nome di Carlo I. Ai loro sforzi per fermare l’inutile strage e riformare i rapporti fra le Nazioni si sono opposti, riuscendo a farli fallire, soprattutto ambienti e uomini di potere di Francia e Germania. Non appena eletto papa ai primi di settembre del 1914, quando la guerra era già iniziata da più di un mese, Benedetto XV intervenne con appelli e con una lettera enciclica (Ad Beatissimi) per la cessazione delle ostilità; chiese un cessate il fuoco per la notte di Natale, che fu rifiutato dalla Francia e dalla Russia. Come ha scritto Andrea Tornielli sulla Stampa, «il 10 gennaio 1915, papa Della Chiesa pubblicò la sua Preghiera per la pace, ma i vescovi e il clero di Belgio e di Francia ne stravolsero il significato, adattandolo agli interessi politici e patriottici dei loro Paesi». E quando in maggio l’Italia di Antonio Salandra e di Sidney Sonnino entrò in guerra, lo fece dopo avere ottenuto l’assicurazione dalle potenze della Triplice Intesa (Francia, Impero Britannico e Russia) che la Santa Sede non sarebbe stata invitata al tavolo della pace alla fine della guerra.

La rivelazione delle trattative segrete

Benedetto XV mai si arrese, e oltre alle iniziative umanitarie portò avanti un’azione diplomatica che l’1 agosto 1917 culminò nella Nota di Pace, che conteneva i seguenti princìpi e proposte: «Libertà dei mari; limitazione degli armamenti; giurisdizione arbitrale internazionale; ritiro della Germania dalla Francia; ripristino della piena indipendenza politica, militare ed economica del Belgio; riconsegna delle colonie tedesche da parte dell’Inghilterra; reciproca rinunzia agli indennizzi di guerra, con esame dei problemi economici pendenti; esame di questioni territoriali pendenti ai confini italo-austriaci (terre irredente) e franco-tedeschi (Alsazia-Lorena); esame con spirito conciliativo delle questioni territoriali riguardanti Armenia, Polonia, Romania, Serbia e Montenegro».

Tutti i capi delle potenze coinvolte nel conflitto respinsero l’uno o l’altro punto del memorandum, tranne l’imperatore Carlo I. Salito al trono il 21 novembre 1916 come successore di Francesco Giuseppe, aveva fin dall’inizio diviso il suo tempo fra la presenza al fronte in mezzo alle truppe e gli sforzi per arrivare per via diplomatica nel minor tempo possibile alla pace. Diede vita a trattative segrete con la Francia, alle quali in seguito fu associata la Gran Bretagna, che alla fine gli costarono il trono e il conseguente esilio nell’isola di Madeira, dove morì poverissimo a soli 34 anni per una polmonite. Infatti nell’aprile 1918 il ministro degli Esteri austriaco filo-tedesco Ottokar Czernin provocò il primo ministro francese Georges Clemenceau accusando la Francia di cercare un pace separata con Vienna. Clemenceau reagì rendendo pubbliche le trattative segrete che erano intercorse a partire dalla fine del 1916, e in particolare fece pubblicare una lettera autografa dell’imperatore Carlo del 24 marzo 1917 dalla quale appariva chiaramente che a cercare una pace separata franco-austro-ungarica, alla quale la Germania si sarebbe dovuta piegare, erano gli Asburgo d’Austria. Il tentativo era già fallito nella primavera dell’anno prima, quando per varie ragioni le potenze della Triplice Intesa allargata all’Italia avevano respinto le proposte di Carlo I (che comprendevano la restituzione dell’Alsazia Lorena e della Mosella alla Francia e l’indipendenza del Belgio). Nei suoi tentativi di pace Carlo ebbe sempre contro i pangermanici tedeschi e austriaci, che sabotarono dall’interno i suoi sforzi, mentre i francesi (come i britannici) si divisero: più favorevoli il presidente Poincaré e il primo ministro e ministro degli Esteri Briand, più intransigenti Clemenceau e Ribot, che subentrarono a Briand nelle sue rispettive cariche.

Le ultime parole davanti all’Eucarestia

L’Italia si oppose alla proposta di Carlo I perché essa non conteneva la consegna all’Italia di Trento e Trieste. Per le province dell’Impero asburgico Carlo aveva in mente altro: una riforma che trasformasse l’Impero in una confederazione dove le undici nazioni componenti si sarebbero autogovernate. A questa soluzione si opponevano gli irredentisti italiani, l’élite ungherese che aveva ottenuto la parificazione con Vienna e i pangermanici. Di Carlo lo scrittore austriaco di origini ebraiche Stefan Zweig scrisse poco prima di suicidarsi, ossessionato dalla paura che la Germania hitleriana vincesse la guerra: «È tra le più grandi personalità di tutti i tempi. Se si fossero seguite le sue idee, l’Europa non avrebbe conosciuto in seguito le più aspre dittature». Il 3 ottobre 2004 Giovanni Paolo II l’ha proclamato beato, ammonendo che il defunto imperatore doveva rappresentare «un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica». Le sue ultime parole prima della morte, di fronte all’Eucarestia esposta, furono: «Gesù, io confido in Te. Gesù, in Te vivo, in Te muoio. Gesù io sono tuo, nella vita e nella morte. Tutto come vuoi Tu!». Essendo fautori di un’Europa cristiana, né Benedetto XV né il beato Carlo sono stati degnamente ricordati dagli europeisti d’oggi che hanno celebrato i 100 anni dell’armistizio di Compiègne.

Foto Ansa

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