Contro la retorica di muri e ponti, riabilitare i confini

Se c’è un argomento che fa fare brutta figura a tutti, ma proprio a tutti, è quello dell’immigrazione di massa in Europa. La fa fare e continuerà a farla fare per chissà quanto tempo. Chi si dichiara contrario e si oppone fa la figura dell’egoista ripiegato sul suo proprio benessere e indifferente alle sofferenze del mondo, e anche dell’ottuso che non coglie i potenziali benefici per la crescita economica e per i conti dello Stato e che non sa immaginare il futuro dell’umanità senza frontiere. Chi si dichiara favorevole entusiasticamente fa la figura dell’idealista astratto e imprudente che pensando di fare del bene mina la coesione sociale e culturale e le condizioni di sicurezza del suo paese, e getta i semi delle reazioni xenofobe di cui si dichiara inorridito; oppure dell’ingenuo che non ha capito che i suoi sentimenti altruisti sono strumentalizzati dalla grande riorganizzazione del capitalismo mondiale che ha bisogno di manodopera a buon mercato nella vecchia Europa.

Gli uni e gli altri fanno la figura di illusi privi di realismo: i contrari perché si illudono di arrestare coi loro muri una marea di proporzioni epocali, i favorevoli perché si illudono di poter integrare qualunque quantità di nuovi venuti semplicemente costruendo i ponti sopra i quali quella marea si incanalerà per arrivare più facilmente in Europa. Insomma, tutti dicono di sapere cosa è giusto fare e cosa è sbagliato, ma in realtà nessuno lo sa veramente, e non appena qualcuno si muove rischia la figuraccia.

I paesi europei, per esempio, a far brutta figura ci mettono un attimo. Quelli che avevano stigmatizzato l’Ungheria per la sua barriera anti-immigranti e per le espulsioni a raffica di richiedenti asilo entrati illegalmente nel paese, adesso ripristinano i controlli di frontiera all’interno dello spazio Schengen e respingono chiunque non sia in regola coi documenti: Svezia, Danimarca e adesso anche la Germania che la scorsa estate, per bocca di Angela Merkel, aveva aperto le porte a tutti i siriani, iracheni e afghani che cercavano di entrare nel paese. La Slovacchia è stata fortemente biasimata quando il suo primo ministro uscente ha annunciato che il paese non avrebbe ospitato rifugiati di religione musulmana bensì solo cristiani, ma i fischi e gli improperi sono improvvisamente cessati all’indomani degli incresciosi fatti di Colonia e di Amburgo. La stessa Europa che criticava apertamente i paesi dell’Est per la loro riottosità ad accogliere quote significative di richiedenti asilo, in novembre ha concluso un accordo con la Turchia che si riassume in un concetto: “Noi vi paghiamo 3 miliardi di euro e voi non li fate partire”.

Non è servito a niente: i siriani e altri profughi continuano a prendere il mare dalle coste turche, spesso pagando con la vita dopo aver pagato con dollari i contrabbandieri turchi di uomini. L’Italia, dopo aver ottenuto l’introduzione di quote europee di redistribuzione dei profughi che mettono piede nella Ue attraverso il nostro paese e la Grecia, continua a non registrare molti di quelli che entrano come faceva prima, quando si trattava di “fregare” la Ue che con la Convenzione di Dublino aveva stabilito che i profughi erano cavoli del paese europeo ove avevano messo piede quando erano entrati in Europa. Qui da noi a Milano tutti si vantano della generosità e civiltà che cittadini e pubbliche amministrazioni stanno dimostrando, assistendo in tutti i modi possibili i migranti che passano per la Stazione ferroviaria centrale di Milano in transito per i paesi del Nord Europa.

Molti di loro poi vengono respinti alle frontiere di tali paesi, perché non hanno i documenti in regola e perché anche i progressisti governi nordici ritengono di non essere in grado di integrare nei loro sistemi un numero indefinito di stranieri. Ma a Milano ci sentiamo tutti buoni e bravi perché facciamo un po’ di volontariato alla stazione centrale con persone in condizioni di bisogno, l’esito ultimo delle nostre azioni non ci interessa: ci penseranno gli scandinavi. Max Weber deve essere un calciatore tedesco, e la sua distinzione fra etica dei prìncipi ed etica della responsabilità una sottigliezza teutonica fatta per disturbare la nostra buona coscienza.

Proviamo allora a ragionare senza sentimentalismi ma anche senza chiusure istintive. A proporre qualche chiave di lettura diversa da quelle quotidianamente propinate, da cui partire per pensare meglio, decidere meglio e agire meglio in materia di migrazioni di massa ma non solo. Io penso che per affrontare nel modo giusto le circostanze storiche che stiamo vivendo (non solo quella delle migrazioni di massa, ma altre ancora ugualmente importanti e urgenti) occorre riabilitare il concetto e la realtà della frontiera. Contro chi dice che questo è il momento giusto per cancellare tutte le frontiere e contro chi dice che questo è il momento in cui vanno costruiti muri impenetrabili lungo i perimetri delle frontiere, io sostengo che questo è il momento di riaffermare la funzione delle frontiere cominciando dal rispetto di quelle esistenti. Qual è la funzione della frontiera? Quella di delimitare mondi diversi, soggetti diversi per storia e cultura. Delimitare non vuol dire bloccare o sbarrare: le frontiere sono fornite di varchi che rendono possibile il passaggio.

Una frontiera è come una porta: si può aprire per fare entrare le persone gradite, si può chiudere quando si desidera un po’ di privacy o bisogna rimettere in ordine la casa, si può lasciare socchiusa per non intimidire troppo chi sta fuori. Contro la stucchevole retorica dei ponti e dei muri, auspico un ritorno alla giusta idea di frontiera, intesa come una porta che è fatta sia per essere aperta che per essere chiusa. Non è un’idea tutta farina del mio sacco, riconosco il mio debito verso lo studioso ebraico Vittorio Robiati Bendaud, che su Tempi ha scritto: «Il locus classicus adottato dalla Bibbia per descrivere i turbolenti rapporti tra il sé e l’altro da sé, tra il residente e lo straniero, tra io e tu, tra identità e alterità, non è né quello dei ponti né quello dei muri con la bieca retorica ideologica di entrambi, ma la porta, figura della dinamicità e non della fissità. La porta, infatti, può essere all’occorrenza chiusa o aperta, disserrata o sprangata, accostata o socchiusa, spalancata o sbattuta». A chi a questo punto già vorrebbe obiettare che ai cristiani è chiesta un’apertura universale diversa da quella concepibile da parte di chi non ha accettato il Nuovo Testamento, faccio presente che domenica scorsa 3 gennaio fra le letture liturgiche compariva il salmo 147, che comincia così: «Celebra il Signore, Gerusalemme,/ loda il tuo Dio, Sion,/ perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,/ in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli./ Egli mette pace nei tuoi confini/ e ti sazia con fiore di frumento». Ebbene, sì: in tutte le chiese cattoliche del mondo è stata celebrata la simbologia sacra di sbarre, porte e confini. Perché non siamo marcionisti (da Marcione, vescovo eretico del II secolo d.C. che teorizzava che dell’Antico Testamento era autore un Dio diverso da quello di Gesù Cristo).

Ci troviamo sotto scacco, senza sapere bene cosa fare, per fallimenti che hanno a che fare con la questione dei confini. Ogni esperienza politica e sociale ha bisogno di confini. La democrazia, la socialdemocrazia, la repubblica islamica, il califfato, la monarchia, persino il comunismo (vedi il sopravvento di Stalin su Trotskij) per realizzarsi hanno bisogno di confini, hanno bisogno di uno Stato con le sue belle frontiere. Qualunque soggettività, qualunque datità storica ha bisogno di uno spazio determinato e di una comunità umana determinata per realizzarsi. La democrazia è un’ideale universale, ma si realizza in forme diverse a seconda dei popoli che la assumono: la democrazia anglosassone poteva prendere vita solo in Inghilterra, quella francese solo in Francia, quella giapponese solo in Giappone. La lingua, la cultura, il territorio, le tradizioni imprimono un’unicità di fatto alle varie forme che la democrazia assume in paesi diversi. Gli stati europei sono nati così, quelli africani e mediorientali sarebbero dovuti nascere nello stesso modo. Ma così non è stato. Le ondate migratorie che si frangono contro l’Europa provengono quasi interamente dall’Africa e dal Medio Oriente, regioni del mondo afflitte da guerre, povertà, sistemi politici dittatoriali, diseguaglianza economica estrema fra chi riesce ad appropriarsi dei frutti della crescita e chi ne è escluso.

Le cause dell’emigrazione di tanti africani e mediorientali, come profughi o come migranti economici, sono quelle. Provengono da stati indipendenti e hanno come destinazione stati indipendenti (sanno distinguere molto bene la loro meta finale: sanno distinguere la Germania dall’Italia, la Svezia dalla Grecia). Ma mentre i confini degli stati europei sono il frutto di una storia plurisecolare e spesso sanguinosa, i confini dei paesi dei migranti sono recenti e in gran parte artificiali. Non li hanno decisi loro, con le guerre o coi plebisciti, ma le potenze coloniali europee che li hanno conquistati nel XIX secolo e che li hanno decolonizzati prima o dopo la metà del XX secolo. Gli stati artificiali dell’Africa nera hanno prodotto regimi politici autoritari o dittatoriali, povertà e/o diseguaglianza economica; gli stati artificiali del Medio Oriente hanno prodotto regimi politici autoritari o dittatoriali, diseguaglianza economica e ultimamente anarchia. In paesi come la Libia, l’Iraq, la Siria e lo Yemen le frontiere ufficiali non esistono più: colonne armate jihadiste dell’Isis e di Al Qaeda, cacciabombardieri americani, francesi, britannici, sauditi e russi, truppe turche e miliziani Hezbollah scorrazzano a piacere.

Dall’altra parte del Mediterraneo fervono le attività per la realizzazione di un grande progetto che intende attenuare fino a farlo sparire il ruolo delle frontiere nazionali: l’Unione Europea. Benissimo, niente da dire sulle buone intenzioni del progetto (mettere la parola fine alle sanguinose guerre fra stati europei, facilitare i commerci, creare una massa critica sul piano dei rapporti internazionali), se non fosse che non si riesce ad ottenere una risposta precisa a una semplice domanda: quali sono i confini definitivi dell’Unione Europea? Qualcuno sa dirlo? A Bruxelles e a Strasburgo cresce il numero di coloro che rispondono: la Ue non ha confini definitivi perché è un progetto aperto, chi ha i requisiti istituzionali e valoriali richiesti può essere sempre accolto. A voi sembra che questo modo di ragionare stia dando buoni risultati? Chi non sa dire quali sono i suoi confini definitivi finisce prima o poi per scontrarsi coi suoi vicini. La Ue è in rotta con la Russia a causa dell’Ucraina e carsicamente in conflitto con la Turchia a causa di Cipro. E d’altra parte la retorica dell’Europa senza confini nell’ultimo quarto di secolo non ha prodotto altro che nuovi, sempre più frastagliati confini al suo interno: quelli prodotti dalla dissoluzione dell’Urss e quelli prodotti dalla dissoluzione della Jugoslavia, Praga e Bratislava che si sono dette addio, e una lista di ricche regioni dell’Europa occidentale che vorrebbero costituirsi in stati indipendenti: Catalogna, Paesi Baschi, Scozia, Fiandre, ecc. Il paradosso è totale: l’Europa che denigra i confini e annuncia che li sta eliminando si ritrova sempre più confini al suo interno e allo stesso tempo si ritrova accerchiata o penetrata da sempre più gente che si comporta come se i confini non esistessero. Continuiamo il discorso fra una settimana.

Foto Colonia: Ansa
Foto immigrati e frontiere: Ansa/Ap

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