Combattere l’evasione coi premi

Perché Tremonti fa il superVisco? Perché il governo ci vuole tutti ausiliari delle Tasse? La caccia all’untore è inutile. Solo uno Stato che guarda al cittadino come suo alleato e non come selvaggina da impallinare riuscirà a perseguire i furbetti dello scontrino. Ripubblichiamo l'articolo uscito sul numero 36 di Tempi (2011)

Ripubblichiamo l’articolo uscito sul numero 36 di Tempi (2011).

È una questione di angolatura. A seconda di quale si sceglie, cambia il modo di intervenire sul fisco. «O considero la disonestà come regola, e l’onestà come eccezione, o viceversa», spiega a Tempi Luigino Bruni, ordinario di Economia politica all’università Milano Bicocca. «Sostengo che è meglio il viceversa, perché crea un senso di amicizia sociale, un popolo. Dalla crisi del ’29 gli statunitensi uscirono perché, oltre la crisi, intravidero il progetto di un grande paese collettivo».
L’angolatura scelta dal professore non sembra essere quella preferita dall’attuale governo, anzi. Non fossero bastati i numerosi articoli e tabelle pubblicati in questi giorni, il quotidiano Italia Oggi ha voluto anche fotograficamente rendere l’idea di quale fosse l’impressione finale che un qualsiasi elettore ricavava dai continui andirivieni governativi. Titolo: “Tremonti fa il superVisco”. Immagine divisa in quattro fototessere dove il volto dell’attuale ministro si trasformava progressivamente in quello del suo predecessore. Predecessore che non ha mancato di togliersi i celebri sassolini dalle scarpe: «Vogliono fare oggi quello che ci impedirono allora» (Il Mattino, 2 settembre).

Che non sia semplice far tornare i conti è comprensibile e l’elenco delle attenuanti generiche che il governo ha messo in campo ha una sua validità. Gli sbalzi umorali delle borse, i tentennamenti dell’Europa, un debito pubblico monstre, l’irrazionalità leghista sulle pensioni, la mancanza di credibilità di un’opposizione o opportunista o sciaguratamente al traino della Cgil. Ma che il governo abbia, nei fatti, come descritto da Piero Ostellino sul Corriere della Sera, «scatenato, con la complicità dei media, una caccia all’untore, identificato tout court con l’evasore», è incomprensibile. Come ha scritto Francesco Forte sul Foglio «la “caccia” ai “grandi evasori” è un fatto classista, in cui i “grandi” sono odiati perché capitalisti e in cui la parola “caccia” dà la sensazione che il contribuente non sia uno che deve pagare il prezzo dei servizi pubblici, ma selvaggina da impallinare. L’imposta, se è moderata, appare giusta e chi non paga è mal giudicato». Non è un caso se le critiche più aspre all’esecutivo sono arrivate dal cosiddetto “fuoco amico liberale”. È una questione di angolatura, si diceva. Misure che promettono entrate prodigiose grazie alla lotta agli evasori, delegando ai Comuni il compito di pubblicare non meglio precisati elenchi di “categorie di contribuenti”, mandano ai cittadini un segnale simbolico forte: il vicino di casa è un (possibile? probabile? certo?) evasore: denuncialo. Il risultato immediato è che tutti hanno paura di tutti. Come ha spiegato il Garante della privacy Francesco Pizzetti, questo è un sistema che ci fa tornare indietro al tempo del «Consiglio dei Dieci della Repubblica Veneta, con la buca delle denunce anonime nel portico di palazzo Ducale. Un tribunale che era il terrore dei veneziani. Un conto è il diritto alla trasparenza e la fondamentale lotta all’evasione, un altro l’imbarbarimento collettivo».

La formidabile arma dell’odio
Un altro è, insomma, il retropensiero che sta alla base di provvedimenti come quello escogitato dal governo che, incapace di una lotta seria ed efficace all’evasione, trasforma i suoi cittadini in «ausiliari delle tasse», per dirla con Alberto Mingardi. Come ha scritto il filosofo Giuseppe Bedeschi, «è come se lo Stato dicesse al cittadino: io non credo alla tua dichiarazione dei redditi, e non ci credo perché, non avendo approntato gli strumenti idonei, io lascio larghissimo spazio all’evasione; perciò ti farò spiare dai tuoi conoscenti invidiosi, dai portinai malevoli, e, perché no?, dai tuoi nemici più rancorosi: l’odio è sempre un’arma formidabile».
Formidabile, in realtà, fino ad un certo punto, perché un sistema che ci vorrebbe tutti esattori/delatori ha risultati meno brillanti di quelli propagandati, tanto è vero che, come ha rivelato il presidente dell’Anci Osvaldo Napoli (Pdl) «solo il 14 per cento dei 15 mila casi segnalati ha fatto avviare indagini fiscali». E anche solo l’idea di istituire nei Comuni dei consigli tributari per poter riscuotere i frutti della caccia agli evasori è un po’ aleatoria, come ha spiegato con la consueta brutalità Franco Bechis su Libero: «I consigli tributari furono inventati per decreto luogotenenziale nel 1945 nell’Italia che ancora non era stata liberata dai nazisti. Poi sono scomparsi. Li hanno rispolverati decenni dopo per la legge “manette agli evasori”. Dovrebbero essere elettivi. Con tanto di campagna elettorale in ciascun quartiere del Comune. Un costo pazzesco. Quando Tremonti li ha rispolverati nel 2010, dando fra 90 e 120 giorni ai Comuni per istituirli obbligatoriamente (senza però sanzioni in caso di niet), quelli lo hanno mandato a quel paese. La maggioranza dei Comuni non li ha istituiti. Perché farli con le regole sarebbe costato troppo. Nominarli direttamente si prestava a ricorsi e andava a finire come è finita: sono zeppi di politici trombati, e comunque hanno tutti poltrone divise fra i partiti che amministrano i Comuni». Perché allora tanta aggressività se solo pochi mesi fa proprio il ministro Tremonti aveva messo un freno a certi atteggiamenti troppo sbrigativi di Equitalia? E perché gettare fumo negli occhi con la caccia ai furbetti dello scontrino, senza nemmeno un accenno a un dato minimo di realtà (vedi cartina a lato) che faccia capire a tutti che per una Lombardia dove il tasso d’evasione è al 12 per cento c’è una Calabria dove è all’85?

Non solo disonesti
Quel che occorre è un cambio di prospettiva, come spiega ancora Bruni a Tempi: «In Italia si fanno le riforme partendo dall’ipotesi che tutti siano furbi e disonesti, e quindi si lavora con una logica punitiva. Mi torna in mente Giacinto Dragonetti, un giurista contemporaneo di Cesare Beccaria, che un anno dopo Dei delitti e delle pene di Beccaria, scrisse il suo Delle virtù e dei premi. Nell’introduzione c’è questa bellissima frase: “Finora gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù”. Questa bella intuizione è anche alla base dell’umanesimo napoletano: che le leggi debbano essere anche un incentivo a premiare le virtù e gli onesti. Un umanesimo che si è molto diffuso (pensiamo anche a Melchiorre Gioia) fino al codice napoleonico». L’idea di fondo è che un sistema politico che parta dall’ipotesi «di aver a che fare con mascalzoni e ignoranti finisce solo per incentivare i disonesti. Nell’umanesimo napoletano c’è meno l’idea hobbesiana dell’homo homini lupus e piuttosto l’idea che le persone, tendenzialmente, sono per bene e che sbagliano quando i sistemi e le istituzioni sono fatte male. In Francia e Svizzera oggi ne discute un filone di autori, come Alter, secondo cui nei lavoratori c’è una grande spinta a far bene e non ad agire con furbizia. Se fai così è perché percepisci il capo o l’azienda come qualcosa contro di te. Io sono convinto come Dragonetti che i lavoratori non siano tutti dei furbacchioni che vanno controllati».

La rivoluzione copernicana suggerita da Bruni è stata ospitata e rilanciata da Avvenire. Le cose che si potrebbero fare sono molte e le idee non mancano, come ha scritto il direttore Marco Tarquinio: «Si costruiscano meccanismi che portano la vita e le relazioni economiche, commerciali e di lavoro interamente alla luce del sole. Si premi cioè – all’americana – chi chiede fattura, chi prende e conserva gli scontrini… Fateceli mettere nella dichiarazione dei redditi, fateceli “scaricare”. Vedrete che la musica cambierà». Ne è convinto Bruni che si chiede: «Cosa unisce in una stessa grande città un tramviere, un vigile, un idraulico e un panettiere? Oggi molto poco, perché ciascuno di questi lavoratori vede l’altro come un potenziale rivale. Invece bisogna lavorare per non avere un atteggiamento sospettoso, ma volto a concepirsi come una comunità. Ci vuole entusiasmo e ottimismo nel combattere una crisi: per risolvere il problema del mondo del lavoro dobbiamo ricercare delle soluzioni non solo dalla politica, ma dalla società civile ed economica. Penso a soluzioni di alleanze, di network, di rilancio e speranza per fare impresa».

Diventare tutti imprenditori
«Pensare che sarà il governo a tirarci fuori dalla crisi – dice Bruni – è un’illusione tardo ottocentesca. Gli elementi della soluzione sono sparsi in milioni di persone, che ogni giorno vanno a lavorare con entusiasmo o no, che rischiano e investono, che osano quando assumono un lavoratore. Se non si ricrea questo clima di fiducia ed entusiasmo collettivo, smorzando anche i toni della contrapposizione politica, non si esce dalla crisi. Dobbiamo tutti essere imprenditori. Se la riforma fiscale non si basasse solo sulle tasse, ma desse segnali di incoraggiamento a mettere in piedi attività nuove, aiuterebbe di più».

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