Com’è che nella clinica per “bambini trans” è andato tutto così storto

Quando un protocollo medico estremo e sperimentale finisce per essere applicato in massa proprio ai casi più controindicati, le cose non possono che finire male

Foto di Patrick Perkins per Unsplash

Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione la recensione del libro-inchiesta di Hannah Barnes sul famigerato “servizio per lo sviluppo dell’identità di genere” nei bambini della clinica Tavistock di Londra. La versione originale inglese dell’articolo, firmato James Le Fanu, medico e divulgatore scientifico, è disponibile in questa pagina del sito del mensile cattolico britannico.

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La medicina si occupa, per necessità, delle conoscenze attendibili nell’ambito di una disciplina basata sulla scienza. Perché dunque per il Gender Identity Development Service (Gids) della clinica Tavistock le cose sono andate così drasticamente storte? Nel 2005, lo psichiatra David Taylor aveva notato una inquietante mancanza di chiarezza a riguardo degli obiettivi della struttura: lo scopo era curare i bambini con disforia di genere oppure questi si identificavano come trans perché erano angosciati per qualche altra ragione? Taylor aveva anche espresso preoccupazione per la «pesante» pressione esercitata sugli operatori della struttura da gruppi di attivisti trans, e dagli stessi ragazzini, per spingerli a prescrivere bloccanti della pubertà «non testati e non sufficientemente studiati».

Questioni fondamentali, verrebbe da dire, eppure non ci sarà mai l’occasione per affrontarle. Il suo rapporto verrà seppellito per non essere più riesumato fino al 2020. In quei 15 anni cruciali, i motivi di preoccupazione che Taylor aveva individuato saranno aggravati oltre ogni misura da un incessante aumento del numero di ragazzini segnalati – da 50 all’anno a diverse migliaia – e la cultura della negazione troverà perfetta epitome nel destino del suo rapporto.

Per dare l’idea del contesto, nei primi anni Novanta la transizione era generalmente considerata molto efficace e non-problematica. Intorno a quell’epoca, durante un consulto talmente memorabile che ne presi nota, un giovane studente universitario alla fine dell’adolescenza mi parlò di come da bambino se ne stesse «sdraiato a letto a pregare Dio e a promettergli che avrei fatto qualunque cosa se Lui mi avesse concesso il miracolo e mi avesse trasformato in una ragazza». Indossava di nascosto gli abiti di sua sorella e bramava i regali che lei riceveva a Natale. Da tempo presentiva che avrebbe trovato la sua realizzazione solo con un intervento chirurgico di riassegnazione. Tuttavia, «non ce l’ho con la natura che mi ha fatto uno scherzo», diceva mestamente, «ho solo bisogno di rimediare».

Totalmente convinto, firmai debitamente la prescrizione degli ormoni femminili raccomandati dal suo psichiatra e accolsi il suo suggerimento di consultare un recente articolo sugli esiti della chirurgia di riassegnazione. Che non avrebbero potuto essere più positivi: con risultati descritti come «eccellenti» quando combinati con procedure ulteriori in modo da ottenere sembianze realmente femminili. Nove pazienti su dieci si dichiaravano «molto soddisfatti».

La “inside story” di Hannah Barnes sulla successiva ascesa e catastrofica caduta della clinica Gids è una storia complessa, ma vi sono tre fattori salienti che predominano, a cominciare dall’ingannevole impiego di questi bloccanti della pubertà come soluzione tecnica. Nel 1998 uno psicologo olandese aveva suggerito che tali farmaci avrebbero potuto migliorare ulteriormente quei risultati già impressionanti per due motivi: avrebbero consentito di aggirare il trauma psicologico derivante dal raggiungimento della maturità sessuale «nel corpo sbagliato», mentre la loro capacità di sopprimere i caratteri sessuali secondari (segnatamente i seni nelle ragazze e i peli facciali nei ragazzi) avrebbe ovviato al bisogno di ricorrere alle procedure aggiuntive femminilizzanti (o mascolinizzanti). In sostanza, l’influentissimo “protocollo olandese”, come sarebbe stato chiamato, consentiva un percorso di transizione senza soluzione di continuità. Prevedeva però un paio di caveat assai significativi a riguardo di chi potesse essere considerato idoneo a sottoporvisi: i candidati dovevano aver sperimentato la disforia di genere fin dalla prima infanzia e non dovevano essere disturbati da alcuna condizione psicologica che potesse comprometterne l’attuazione.

Ma i bloccanti della pubertà, come trapelò presto, facevano ben più che sopprimere quei caratteri sessuali secondari concedendo al giovane il «tempo per meditare» sul proprio desiderio di transizione: la rendevano quasi inevitabile. Pensate a una adolescente privata del proprio picco di ormoni sessuali naturali tipico dell’età puberale. Raggiunti i 16 anni, sarà diversissima dalle sue coetanee, psicologicamente e fisicamente: più bassa, senza seni né peli pubici, con nessuna esperienza di quei primi desideri e incontri sessuali che avrebbero potuto indurla a riconsiderare il suo sogno di cambiare genere. Così, benché si proclamasse che gli effetti dei bloccanti della pubertà fossero reversibili, con ripresa della normale traiettoria di maturazione sessuale una volta interrotta la somministrazione, sono in pochissimi a desistere. Praticamente tutti procedono al passo successivo del protocollo, che prevede alte dosi di testosterone mascolinizzante o – per i maschi biologici in transizione – estrogeni femminilizzanti, in vista dell’intervento chirurgico per la riassegnazione.

L’influenza determinante dei bloccanti della pubertà nell’indurre i bambini a percorrere fino in fondo il percorso verso la transizione avrebbe dovuto suscitare maggior cautela ai fautori del protocollo. E forse per qualcuno è stato così. Ma questi dovevano anche combattere con (o si lasciavano convincere da) la narrazione allora in ascesa sulla disforia di genere: non una condizione psicologica, bensì piuttosto la caratteristica distintiva dell’ennesima minoranza oppressa, come era stata in precedenza l’omosessualità. In questo contesto il ruolo del Gids – così si sosteneva – doveva essere affermare, non mettere in dubbio, l’auto-identificarsi della persona come trans, con la prescrizione dei bloccanti della pubertà a fare da «prova di solidarietà rispetto al problema vissuto da chi ne faceva richiesta».

Nel frattempo la demografia di coloro che chiedevano di essere indirizzati al Gids stava cambiando drasticamente. Non più prevalentemente giovani uomini con disforia di genere fin dall’infanzia che, come il mio studente universitario, «volevano solo rimediare». Adesso erano per lo più ragazze nei primi anni dell’adolescenza con nessuna storia di questo tipo alle spalle, la cui auto-identificazione come transgender risultava improvvisa, associata al ritiro dalla società e a una marcata ostilità nei confronti di quanti, soprattutto i genitori, esitassero a riconoscere la loro nuova condizione. Un numero sproporzionato di queste ragazze aveva vissuto un’infanzia difficile o era psicologicamente vulnerabile. Dunque, paradossalmente, la maggior parte dei pazienti trattati con bloccanti della pubertà secondo il protocollo olandese rispondevano esattamente alla descrizione dei casi per cui, nella formulazione originale, lo stesso protocollo era ritenuto inappropriato.

Poteva solo finire male, come in effetti è accaduto. Ma ci è voluto un tempo sorprendentemente lungo perché si svelasse la confusione terapeutica e intellettuale che è stata il marchio di fabbrica della pratica clinica del Gids. Ci sono state voci di dissenso, naturalmente, e il resoconto obiettivo della Barnes è informato proprio da quanti provavano un disagio crescente rispetto ai danni causati, per usare le parole di uno di loro, dalla «offerta di un intervento medico estremo come trattamento di prima linea destinato a giovani in situazione di sofferenza che potrebbero rivelarsi trans, oppure no».

Nel 2017, il Gids non riusciva più a fare fronte al numero sempre più alto di segnalazioni, e reclutava psicologi con scarsa esperienza clinica ai quali veniva poi richiesto di gestire carichi astronomici di casi. Dieci elementi dello staff decisero di condividere la loro angoscia con lo psicoanalista più esperto della Tavistock, il dottor David Bell, che acconsentì a compilare un rapporto (l’ennesimo) la cui valutazione era che i bisogni di quanti frequentavano la clinica ricevevano una risposta «miseramente inadeguata». Questo rapporto non fu accolto bene, ma la pubblicità che ne scaturì quando un anno più tardi ne furono pubblicati dalla stampa alcuni estratti darà il via alla tanto attesa indagine pubblica che alla fine porterà alla chiusura della clinica.

Non possiamo sapere praticamente nulla delle conseguenze, positive o negative, a cui sono andati incontro le migliaia di bambini segnalati al Gids, perché la clinica ha scandalosamente trascurato la raccolta dei dati che avrebbero consentito una valutazione ragionata dell’efficacia o meno delle sue terapie sperimentali. Una renitenza le cui ragioni si capiscono meglio leggendo nel libro della Barnes i racconti degli ex pazienti che descrivono la loro esperienza di transizione.

Tra questi ci sono anche un paio di casi di successo, che coinvolgono, come prevedibile, persone che desideravano la transizione fin dagli anni dell’infanzia. Ma a questi fanno da contraltare gli adolescenti in difficoltà per i quali non ha funzionato: avviati al trattamento medico dopo una sommaria ricognizione della loro sessualità («È bastato dire che mi trovavo a disagio con il mio corpo») e poi pentiti («I dubbi per me sono cominciati quasi subito dopo la mia doppia mastectomia»). Fortunatamente per gli adolescenti in difficoltà, adesso prevalgono consigli più saggi.

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