Chiara Appendino, la finta incendiaria. È «il volto antisistema del sistema»

Sotto la Mole di Torino, si è già capito che la “sindaca” Appendino non farà fuoco e fiamme per bruciare gli assetti di potere della città. Anzi.

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Non sono ancora trascorsi i proverbiali cento giorni dalla sua elezione a sindaco di Torino (anzi a “sindaca”, come preferisce definirsi in omaggio alla correttezza politica di genere), ma non è peregrino né arbitrario sostenere che Chiara Appendino si avvia a confermarsi, come i più acuti e disincantati osservatori delle vicende politiche sabaude l’hanno bollata, «il volto antisistema del sistema». Ben lungi dal voler sovvertire gli assetti ideologici e di potere della città, da cui è tutt’altro che aliena, si appresta a realizzare un’ulteriore ridefinizione di quel mix tra radicalismo (nei contenuti) e moderazione (nei toni) che ha reso il capoluogo piemontese il laboratorio dell’egemonia del “pensiero debole” (cioè del relativismo nei suoi esiti totalitari). Null’altro, con nemmeno il pregio di qualche estetismo scapigliato, dell’eterna riproposizione del “giacobinismo mite” di galantegarroniana memoria. Per dirla con il comunista Marco Rizzo: «Sostanzialmente, un efficientamento del sistema». Il primo cittadino grillino ha in questo primo periodo dimostrato di sapersi muovere con “tecnicalità dorotea”, ben attenta a non frantumare il complesso consenso trasversale – ma con una partecipazione al voto nei due turni di poco superiore al 50 per cento – di tutti gli antifassiniani. Anche recuperando seconde linee del potere che fu, dentro e fuori i palazzi. Faccenda ben diversa da quella palingenesi che ha rappresentato (più in senso teatrale che programmatico) durante la campagna elettorale e che ha avuto la sua plastica rappresentazione il giorno dell’insediamento quando, col codazzo di consiglieri e assessori, ha compiuto una discutibile “marcia sul Palazzo” partendo da casa sua. Ma casa sua non è, nemmeno simbolicamente, in quelle periferie della città di cui s’è fatta portavoce. Anzi.

Appendino è, sin dalla sua biografia, ben lontana dall’immagine della pentastellata cittadina qualunque che può innescare il cambiamento con la taumaturgica e onnipotente onestà (riedizione della leninista cuoca in grado di governare la Russia in forza della scientificità del marxismo). Brillante e poliglotta bocconiana, poco più che trentenne e per nulla disattenta al suo aspetto esteriore, è figlia di Domenico Appendino, manager e vice presidente di Prima Industrie, all’avanguardia nei macchinari laser. L’azienda è guidata oggi da Gianfranco Carbonato, attuale presidente di Confindustria Piemonte. Può vantare uno stage alla Juventus (trasformato, nel curriculum elettorale, in una più generica esperienza in una società sportiva di prima grandezza). Appendino non ha certo difficoltà a relazionarsi con la corte Agnelli. Andrea l’ha voluta incontrare prima del ballottaggio, e, l’indomani della vittoria, John Elkann ha prontamente apprezzato «la volontà di cambiamento degli elettori». Aggiungendo, tanto per far capire i margini d’azione, che «Torino è sempre stata caratterizzata come città dal buon governo e da un governo serio e lo abbiamo visto negli ultimi cinque anni con Fassino. Sono sicuro che avremo la possibilità con il nuovo sindaco di poter mantenere la tradizione di Torino».

Il nuovo che avanza?
Una “libertà vigilata” che è, in fondo, l’ambito in cui la prima cittadina ha manifestato di volersi muovere. Pure Evelina Christillin, gran dama della Torino olimpica e oggi alla guida della Fondazione del Museo Egizio e a capo dell’Enit, non si è discostata dalle parole al miele riservatele dalla “Torino che conta”: «È istruita, colta, educata, borghese: potrebbe essere mia figlia. Questo rassicura molto i torinesi, anche quelli che non l’hanno votata. Bisognerà poi vedere come gestirà il rapporto con alcuni di quelli che la seguono. Penso ai No Tav, tra i quali ci sono anche ottime persone, ma anche ai Forconi e ai Borghezio».

La richiesta della testa di Francesco Profumo, già rettore del Politecnico e ministro dell’Istruzione, oggi presidente della Compagnia di San Paolo, nei salotti buoni è stata vista come un necessario sparare al “bersaglio grosso” (per altro ben sapendo che il margine per una rimozione è praticamente nullo). Le simpatie per il movimento No Tav come un obbligo d’ufficio. D’altronde è stata la sindaca la prima a dire, annunciando che al tavolo dell’Osservatorio si siederà almeno una volta per proporre le ragioni dell’opzione zero, che non «è tra i poteri del Comune fermare l’opera».

Le dichiarazioni (ovvie, per altro, per chi riveste una carica istituzionale) di solidarietà alle forze dell’ordine e ai lavoratori in occasioni dei nuovi assalti al cantiere da parte dell’ala barricadera dei “treno crociati”, hanno già rassicurato i tanti gattopardi sotto la Mole. A giocare il ruolo del “duro e puro” contro il “treno veloce”, par di capire, sarà affare del vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Guido Montanari, tecnico da sempre impegnato nella lotta contro la Torino-Lione. A ciascuno il suo, insomma, per non scoprirsi su nessun lato. Non proprio il nuovo che avanza, se è concesso.

A proposito di assessori, significativo quello “alle famiglie” assegnato all’ex presidente dell’Arcigay Marco Giusta. Provvedimento gay friendly tutt’altro che imbarazzante per la “gauche caviar”. L’assessore, suscitando qualche contenuto fastidio addirittura nella felpatissima curia torinese, ha spiegato che la nuova denominazione «è un cambio di approccio, che segna il passaggio dal concetto di famiglia a quello plurale di famiglie. Non è solo una questione nominalistica, ma un atto politico che consiste nel dare un nome alle cose, a quelle realtà che già esistono e che non trovano un riconoscimento nemmeno nel linguaggio». Aprendo alla possibilità di utilizzare le formule genitore 1 e genitore 2, ha poi chiarito che a suo dire «non c’è nulla di naturale nella famiglia, come ricorda nel suo ultimo libro Chiara Saraceno» (la sociologa di riferimento di Repubblica, ndr). Affermazioni niente male per chi affonda le proprie origini d’impegno pubblico in parrocchia (ma questo è un discorso più ampio).

L’azionismo di sempre
Dal mondo cattolico, su posizioni iper-dissidenti che lo hanno portato ad abbandonare prima il seminario e poi la Chiesa, arriva l’onnipresente capo di gabinetto Paolo Giordana. Basti ai lettori, per farsi un’idea, il ritratto che ne dipingeva qualche tempo fa il quotidiano on-line Lo Spiffero: «Funzionario comunale del settore Cultura, con cui la Appendino ha scritto a quattro mani il libro-manifesto La città solidale, per una comunità urbana. Entrato in municipio come staffista dell’allora assessore liberale Paolo Peveraro, che in passato aveva intrapreso la carriera sacerdotale, salvo lasciare il seminario in polemica con le gerarchie ecclesiastiche (una sorta di padre Charamsa sabaudo), convertirsi alla fede ortodossa di un non meglio precisato rito (secondo alcuni del tutto “eretico”) e in nome di questa “rianimare” una chiesa sconsacrata in corso Inghilterra, dove peraltro ha celebrato messe e officiato riti, finché i proprietari non gli hanno imposto la restituzione delle chiavi. Oggi al posto della chiesa c’è un sushi bar».

Indizi, ma ne ce sarebbero altri ancora, che spiegano come ci si trovi di fronte a una versione 2.0 dell’azionismo di sempre. A una nuova élite che del popolo può al massimo servirsi più che servirlo. Gli ingredienti ci sono tutti: il giusto tasso di odio anti-cattolico, il legalismo applicato soprattutto ai nemici, il politicamente corretto come linguaggio e – non certo per ultima – la giusta trama di rapporti con i salotti più influenti. Infine: poiché, prima di sedere in Sala Rossa, la quasi metà dei consiglieri del monocolore grillino risultava disoccupata, è facile scommettere che in futuro certe vecchie dinamiche da Prima Repubblica torneranno a riproporsi: o avete dubbi che qualcuno preferisca tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia?

Foto Ansa

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