Tratto dal Centro Studi Livatino – Con l’intervento del presidente emerito di sezione della Cassazione Pietro Dubolino prosegue la riflessione sulla sentenza n. 24414/2021 delle Sezioni Unite civili sul crocifisso: una riflessione avviata il giorno stesso della pubblicazione e proseguita ieri con l’intervento dell’avv. Angelo Salvi. Nel rilevare le aporie della pronuncia e il suo tratto ancora una volta “creativo” della norma, l’Autore ne sottolinea la difficoltà di concreta applicazione, per le incertezze da essa derivanti.
La Corte ha ritenuto che il provvedimento del dirigente scolastico fosse illegittimo ed ha conseguentemente annullato la sanzione disciplinare nella parte riferibile all’inosservanza del medesimo.
La Corte ha invece ritenuto di poterla e doverla “salvare” mutandone radicalmente la natura, e cioè trasformandola da norma precettiva in norma facoltizzante, subordinatamente, peraltro, al verificarsi di condizioni rimesse alla più totale ed incontrollabile discrezionalità di terzi, quali, in particolare, gli studenti o altre componenti della comunità scolastica da cui possa provenire la richiesta di collocazione del crocifisso nelle aule. Si tratta, quindi, non di una lettura “costituzionalmente orientata” della norma in questione, ma di un suo totale e assoluto stravolgimento da ritenersi, come tale, non consentito in sede interpretativa.
La Corte, in realtà, per risolvere il caso sottoposto al suo giudizio, avrebbe dovuto limitarsi a scegliere, puramente e semplicemente, se l’art. 118 del R.D. n. 965/1924 fosse o non fosse da considerare, così com’è, compatibile con la Costituzione e quindi applicabile, traendone le dovute conseguenze: vale a dire, nella prima ipotesi, l’automatico rigetto del ricorso, salva l’eventuale fondatezza di motivi esulanti dalla sfera di possibile rilevanza del citato articolo; nella seconda, il suo accoglimento, a prescindere dalle specifiche connotazioni del provvedimento del dirigente scolastico di cui si addebitava al ricorrente l’inosservanza, bastando all’uopo il solo fatto che esso sarebbe risultato privo di valida base normativa.
Concetti, questi, che, d’altra parte, la stessa Corte non solo non ha in alcun modo confutato ma ha anzi, sostanzialmente condiviso laddove, come si è visto, ha anch’essa escluso che l’esposizione del crocifisso nelle aule, se richiesta dagli studenti, possa in alcun modo limitare o condizionare la libertà di insegnamento e, più in generale, la libertà di espressione di ciascun docente, trattandosi di «un simbolo essenzialmente passivo»; il che corrisponde, inoltre, a quanto già in precedenza affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza della Grande camera 18 marzo 2011 nel caso Lautsi c. Italia, anch’essa richiamata nella sentenza delle S.U. in commento per ricordare come, con tale pronuncia, sia stata esclusa la contrarietà dell’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule scolastiche tanto all’art. 9 della Convezione, che tutela la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, quanto all’art. 2 del Protocollo addizionale, che impone allo Stato l’obbligo di rispettare il diritto dei genitori a che l’educazione e l’insegnamento nelle scuole pubbliche sia conforme alle loro convinzioni religiose e filosofiche.
E potrebbe, a questo punto, osservarsi che, una volta dato per acquisito il carattere di «simbolo essenzialmente passivo» da attribuirsi in ogni caso al crocifisso, con le conseguenze che si sono viste, non si vede quale rilievo dovrebbe attribuirsi alla circostanza che la sua presenza sia dovuta all’osservanza di una norma statuale ovvero all’accoglimento di una richiesta di studenti o di altra componente della comunità scolastica. Nell’uno e nell’altro caso, infatti, sarebbe comunque esclusa ogni e qualsiasi incidenza negativa di detta presenza sul pieno ed incondizionato esercizio della libertà di insegnamento e di manifestazione del pensiero, salvo che nell’ipotesi, alquanto improbabile, che qualche crocifisso, al pari di quello che, nei racconti di Guareschi parlava a don Camillo dall’altare sul quale era collocato, facesse sentire a studenti e professori, durante le ore di lezione, la sua voce ammonitrice.
Se ne desume, se le parole hanno un senso, che presupposto necessario per l’esposizione di tali altri simboli dovrebbe essere quello che sia stata chiesta e disposta anche quella del crocifisso. Ora, supponendo la incondizionata vigenza dell’art. 118 del R.D. n. 965/1924, in base al quale è sì obbligatoria l’esposizione del crocifisso ma non può ritenersi in alcun modo vietata quella, accanto ad esso, di simboli di altre religioni, la presenza del suddetto presupposto sarebbe comunque assicurata. Accogliendo invece l’interpretazione della Corte, la sussistenza o meno del presupposto in questione verrebbe a dipendere dalla mera eventualità che ogni singola comunità scolastica, su sollecitazione di una o più delle sue componenti, decidesse, nella più assoluta ed incontrollabile discrezionalità, l’esposizione del crocifisso. Ciò significa, in pratica, che se gli studenti musulmani o induisti o animisti desiderassero vedere esposti nell’aula scolastica i simboli della loro fede, sarebbero costretti a fare pressione sugli studenti cattolici perché questi chiedano ed ottengano la previa esposizione del crocifisso; cosa che, invece, non sarebbe necessaria se il crocifisso, come dovrebbe avvenire in ossequio alla legge, fosse già esposto.
In primo luogo, infatti, non si spiega, e non è dato comprendere, quale sia il fondamento normativo posto a base del ritenuto vizio di legittimità, la cui configurazione appare quindi frutto di una mera creazione giurisprudenziale. Secondariamente, non risulta fornito, dalla Corte, alcun elemento sulla base del quale possa darsi risposta all’interrogativo che pur sorge spontaneo: cosa dovrebbe fare il dirigente scolastico se, pur adoperando tutta la sua buona volontà, non riuscisse, per la presenza di irriducibili contrasti fra le varie componenti della comunità scolastica, a trovare l’auspicata «soluzione di mediazione e di compromesso»?
Escluso, presumibilmente, l’obbligo delle dimissioni o, magari, quello del suicidio, l’unica alternativa ragionevolmente possibile dovrebbe essere quella di respingere la richiesta di esposizione del crocifisso anche se, in ipotesi, sostenuta dalla maggioranza degli appartenenti alla comunità, ovvero di accoglierla, previa verifica (in qualche modo tutto da inventare) di una tale maggioranza. Nell’uno e nell’altro caso, però, è comunque evidente che qualcuno, nell’ambito della comunità, dovrebbe rassegnarsi a subire senza obiezioni la volontà degli altri.
Il che, piaccia a non piaccia, risponderebbe all’ordine naturale delle cose umane, nel quale il compito della legge e di quanti sono chiamati ad interpretarla e ad applicarla non può essere (contrariamente a quanto sembrerebbe ritenuto, nel caso in esame, dalla Cassazione), quello di vagheggiare e proporre una utopistica disponibilità di ciascuno a trovare un accordo con gli altri ma piuttosto quello di stabilire d’autorità, «ne cives ad arma veniant», in assenza di un tale accordo, se, a quali condizioni ed entro quali limiti la volontà di alcuni debba prevalere su quella di altri. Il che, a ben vedere, costituisce il principio cardine della stessa democrazia.
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