«Un uomo non è il suo errore». Progetto Sicomoro fa incontrare vittime e detenuti

Faccia a faccia tra familiari e carcerati. Perchè un percorso di riconciliazione con sé e con gli altri è possibile

Un detenuto del carcere di Opera (41 bis) che ha partecipato al progetto Sicomoro abbraccia il direttore del penitenziario, Giacinto Siciliano

Chi è stato vittima di un reato, può guardare in viso un delinquente e perdonarlo? Può ritrovare la pace? È intorno a queste domande che si sviluppa il Progetto Sicomoro, attivo grazie all’associazione Prison Fellowship in tutto il mondo (5mila detenuti coinvolti) e dal 2011 operante anche in Italia. Il progetto prende il nome dall’episodio evangelico dell’incontro tra Gesù e Zaccheo: come il pubblicano fu perdonato da Cristo, così il progetto spera che vittime e carnefici possano ritrovarsi. «È un esempio concreto di giustizia riparativa, cioè della funzione rieducatrice della pena che dà un ruolo da protagonista anche alla vittima dei reati» spiega a tempi.it Marcella Reni, presidente di Pf Italia, raccontando i risultati dell’ultimo percorso appena concluso nel carcere di Modena.

Come funziona il progetto Sicomoro?
Prevede un ciclo di incontri tra detenuti e vittime. La premessa necessaria da fare è che il detenuto non è coinvolto in alcun maniera con il delitto che ha provocato le vittime dei familiari che incontrerà. Non è stato lui, cioè, a compiere il reato specifico di cui quelle persone sono vittime. Ne ha commesso uno simile, ma non quello in particolare. L’incontro avviene dentro le mura del carcere dopo un preparazione, sia dei detenuti sia delle vittime, e gli incontri durano 8 settimane. Partecipano anche due “facilitatori” (una finora sono stata io, che nella vita sono notaio e non lavoro in carcere) che hanno seguito dei corsi specifici in giustizia riparativa tenuta dagli esperti americani di Prison Fellowship. Solo al primo progetto fatto in Italia, nella casa di reclusione di Opera con detenuti al 41 bis per reati di mafia, agli incontri partecipavano anche due educatori del carcere, ma visto l’esito positivo dell’iniziativa, i direttori degli istituti ci hanno permesso di procedere così. Va sottolineato che il progetto Sicomoro non è premiale, cioè non garantisce sconti di pena ai detenuti. I detenuti acquisiscono una consapevolezza, iniziano un percorso vero di espiazione personale e dove è possibile di riparazione.

Cosa accade negli incontri?
Noi chiediamo ai detenuti di mettersi nei panni delle vittime, di vivere il dolore di queste, e capire cosa i loro reati hanno causato, e non solo sulla singola persona, ma anche sulla famiglia e sul contesto sociale. Viceversa, chiediamo alle vittime di ascoltare e condividere le sofferenze dei detenuti, soprattutto il loro background, chiediamo di vivere tutto ciò che ha portato ai comportamenti delittuosi. Ciò non avviene in modo coercitivo, ma libero. Il reato rimane reato, ma attraverso questa condivisione umana si dà al detenuto la possibilità di ricominciare un percorso “sano”, liberandosi del proprio passato.

E le vittime, come reagiscono?
Anche alle vittime accade di superare il dolore immenso per ciò che hanno subìto. Nasce la speranza di ricominciare. Riscontro la prima utilità di questo progetto anzi proprio nelle vittime, che non sono affatto personaggi secondari, ma i veri protagonisti. Attualmente, nel sistema italiano, la vittima è una comparsa, non decide né interviene nel procedimento penale e spesso è sottoposta allo stress costante di ricordare ciò che ha subìto nelle aule di tribunale. Il progetto Sicomoro la rimette al centro e le dà in mano le redini di ciò che vive. Quando la vittima capisce che il suo dolore non è sprecato, ma serve ad altri uomini a riconoscere cosa ha causato il loro male, abbiamo visto un profondo senso di liberazione e di pacificazione. Ho visto persone vittime di reati che hanno cambiato stile di vita, recuperando serenità.

Ci racconta un esempio concreto?
A Modena ha partecipato il fratello di una persona uccisa dodici anni fa. Questo uomo aveva lottato in questi anni per rimuovere quel dolore. Durante gli incontri ha raccontato: «Mi rifiutavo di guardare in faccia i detenuti, come il mio dolore. Invece mi sono reso conto che l’uomo non è il suo errore, come diceva don Benzi, e che il dolore può essere riparato solo attraverso questo reciproco riconoscimento dell’uomo, che è sia chi ha commesso il delitto sia chi lo ha subito».

E per quanto riguarda i detenuti?
Uno dei detenuti di Modena, a mio modo di vedere, sembrava irrecuperabile nelle prime sessioni. Gli ho chiesto scusa alla fine degli incontri, perché ha dato segni evidenti di ravvedimento. Quest’uomo ha 56 anni, e da quando ne aveva 20 ha girato tutte le carceri di Italia: era anche un ribelle, è stato protagonista di numerose risse in carcere. Ci ha detto: «Perché non mi avete detto queste cose quando avevo 20 anni? Io non ero consapevole di ciò che facevo, ma dai racconti che ho ascoltato ho sentito un dolore che non ho nemmeno mai immaginato. Sono profondamente arrabbiato con me stesso, ma non voglio più essere quell’uomo, voglio rendere orgogliosi di me i miei figli e i miei nipoti».

Come reagisce il personale del carcere al progetto Sicomoro?
I primi a restare colpiti sono i direttori. Sono loro a notare come i detenuti, dopo anni di trattamento rieducativo penitenziario, solo con le otto settimane del progetto Sicomoro escano autenticamente trasformati. Se ne accorgono pure gli agenti di polizia penitenziaria. Uno degli agenti mi ha avvicinata poco tempo fa e mi ha detto: «Ma che è ‘sto Sicomoro? Io non avevo mai visto delle persone cambiare così!».

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