«Il carcere è un problema della comunità e dobbiamo farcene carico tutti»

Ad un convegno sulla pena organizzato dalla Camera penale di Milano, magistrati, avvocati e direttori riflettono sulla detenzione

Matteo, 23 anni, parla con tono tranquillo davanti ad una platea di avvocati, giudici, giornalisti: «Finito il carcere, ho continuato a studiare. Ho finito la maturità, e adesso mi sono iscritto all’università. Per mantenermi faccio il promoter di una palestra. Ho trovato parecchi lavori dopo il carcere, perché ho portato in giro diversi curriculum, mi sono davvero “sbattuto”. Prima di questo, infatti, ho trovato anche impiego due volte come cameriere in un ristorante. Non mi hanno mai chiesto sinora se avessi dei carichi pendenti, e ovviamente io, avendo pagato il mio conto con la giustizia, non ho certo scritto sul curriculum che ero stato in carcere. Forse per questo non ho avuto problemi: ora voglio studiare e lavorare». Matteo è uno dei due ex detenuti che sono intervenuti giovedì sera al convegno organizzato dalla Camera penale di Milano, “Dopo il carcere. Finalità della pena, reinserimento sociale e recidiva”.

«SANZIONI DI COMUNITA’». I penalisti milanesi hanno deciso di incontrarsi per un momento di riflessione sul carcere con alcuni dei principali “addetti ai lavori”, tra cui Giovanna Di Rosa, magistrato al tribunale di sorveglianza milanese, ed ex membro del Csm, che così ha sintezzato il fil rouge degli interventi: «Le misure alternative dovrebbero essere vissute come “sanzioni di comunità”: vuol dire che ciascuno di noi si deve fare carico dell’accoglienza dei detenuti e che non ci possiamo limitare a leggere il giornale che parla di condizioni disumane del carcere, e poi voltare la pagina».
Non ci si chiede mai, nota il magistrato, come siano accolti i detenuti dopo il carcere che, in teoria, dovrebbe essere un percorso di reinserimento nella società. «Come si comporta la società davanti a ex detenuti? – ha chiesto Di Rosa – Non si pensa mai al carico che la società dovrebbe portare: si parla al massimo delle comunità di accoglienza e recupero. Ma non sono queste nobilissime realtà a dover stare al centro della riflessione sulla giustizia. Le misure alternative dovrebbero essere vissute come “sanzioni di comunità”. È la società che deve cercare di strutturare risposte di inserimento concreto, come alloggi o occupazione: invece tutti sappiamo benissimo che è difficile trovare una rete che permetta un vero lavoro di reinserimento. È su questo che una città ricca e accogliente come Milano dovrebbe riflettere, anziché forse tirare un po’ i remi in barca, come mi sembra stare facendo negli ultimi tempi».

NON SOLO SOVRAFFOLLAMENTO. Gloria Manzelli, direttrice del carcere di San Vittore, ha descritto cosa accade dietro i cancelli dell’istituto di pena milanese più noto: «Negli ultimi mesi sono cambiate molte cose in tema di sovraffollamento. Oggi siamo scesi 955 detenuti presenti, di cui 890 uomini e 60 donne (la capienza è di 752 posti, ma nel carcere milanese fino all’inizio del 2014 c’erano più di 1.200 persone, ndr) e prevalentemente sono persone in attesa di primo giudizio. Le celle restano aperte nella stragrande maggioranza dei reparti dalle 8 alle 20. La condanna che il nostro paese ha ricevuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ha portato a una svolta epocale. Ma ci siamo mossi per ridurre il sovraffollamento solo dopo l’intervento di un’autorità giudiziaria, e non per una spinta interna al nostro stesso paese».
Per la direttrice di San Vittore, i problemi fondamentali restano: «Io definisco il nostro istituto “un grande contenitore di disagi sociali”. Purtroppo a San Vittore ci sono ancora troppe persone detenute per reati bagatellari, per i quali nemmeno in fase di custodia cautelare si possono trovare soluzioni alternative al carcere, perché non hanno nessuno che li accolga. Ci sono poi le detenute madri, separate per i figli, e ragazzi che arrivano ad appena 18 anni, com’è avvenuto per Matteo: una follia in un paese democratico. Se solo ci fosse una rete sul territorio, per molti reati non pericolosi si potrebbero applicare tranquillamente forme di custodia cautelare diverse dal carcere».

«MISURE ALTERNATIVE SONO UNA VERA PENA». Severina Panarello, direttrice dell’Ufficio penale esterno di Milano, parte dai dati: «L’Uepe di Milano nel territorio della città e di Lodi e Monza, ha in carico oggi tremila persone in misura alternativa: di questi, solo 82 donne ai domiciliari. Tutte queste persone stanno scontando una pena in modo dignitoso. Ma quest’idea non viene compresa, si pensa spesso ad una pena soft. Non è così: si tratta di persone che stanno scontando una pena efficace e adeguata. L’esecuzione penale è anzi la modalità principe di scontare una pena, perché riduce drasticamente la recidiva. Tuttavia i cittadini non conoscono cosa facciamo. Qual è il problema? L’accoglienza del territorio e la cultura della pena: se non si capisce che è una pena a tutti gli effetti e che si può scontarla in una città, con un lavoro, tutto resta vano e limitato. Per far questo, occorre che tutti si muovano».

Foto carcere da Shutterstock

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