Capitale umano

n. 8 - 2010

La crisi economico-finanziaria che sta scuotendo il mondo produttivo e la vita di tante persone sta rimettendo in discussione alcuni paradigmi da decenni intoccabili, quali quello dello sviluppo (con l’allarmante idea di sviluppo senza occupazione), di redistribuzione, di responsabilità sociale… Il nostro paese si è sempre caratterizzato per una diffusa capacità di iniziativa imprenditoriale e per una buona capacità di redistribuzione attraverso un sistema di welfare di tipo universalistico. Prima di questa recente fase di crisi, stavamo attraversando un periodo di “piatta”: crescita a rilento, endemico ritardo di riforme cosiddette “irrimandabili”, sacche di rendita e clientelismo.

Allora, cosa determinò nel Dopoguerra la crescita economica e sociale in un paese così privo di risorse naturali? E cosa è venuto meno quando abbiamo cominciato ad andare in crisi? E ancora, cosa può determinare ora una nuova presa di iniziativa, sia economica che sociale? Sono argomenti che se sviscerati riempirebbero volumi interi. Qui mi limito a sottolineare solo un aspetto, quello del riferimento ad una concezione di uomo che ci porta ad un’idea più ampia di capitale umano. Negli ultimi cinquant’anni, gli studi di economisti quali Solow e dei premi Nobel Heckman e Becker hanno mostrato come la qualità e le conoscenze dei lavoratori di ogni ordine e grado siano fondamentali nella crescita della produzione e della produttività. Nello stesso tempo, occorre evidenziare che il capitale umano non può essere ridotto a mera grandezza economica: esiste un aspetto immateriale e non misurabile del capitale umano, per quanto assolutamente reale. È il desiderio che l’uomo ha di verità, di giustizia, di bellezza, che ha riflessi non solo sulla vita personale e familiare, ma anche sulla vita economica e sociale.

Il ritorno in capacità creativa, lavorativa, imprenditoriale è legato profondamente a motivazioni e dinamiche umane. Infatti, cosa fa sì che, in un momento insidioso come questo, uno non decida di mettere al sicuro il suo capitale e vivere di rendita, anziché rischiare di investirlo per costruire qualcosa? Inoltre, come ha mostrato una recente ricerca, Sussidiarietà e piccola e media impresa, è ancora molto diffuso l’interesse del piccolo e medio imprenditore ad allearsi con il lavoratore, a creare posti di lavoro e a rendere l’impresa, anche a proprie spese, un luogo dove i lavoratori stiano bene.

Un’attività umana nasce dall’osservazione della realtà e dal desiderio e capacità di trasformarla, immaginando l’utilità per sé e per chi riceverà il frutto di tale operato. Il cuore di ogni investimento in capitale umano è questa idea non ridotta di sé, che implica anche il bene degli altri. Quando il lavoro è costruito sulla qualità, sull’ideale e sul desiderio dell’uomo è alleato del capitale, ne diviene nemico quando prevalgono concezioni umilianti la dignità dell’uomo in tutti i suoi aspetti. Quando il lavoro è fondato sul desiderio dell’uomo di costruire e realizzarsi, esiste una naturale convergenza tra l’interesse per il proprio lavoro e il bene dell’azienda.

Nel nostro paese, il desiderio personale che muove all’azione e al lavoro, al rischio imprenditoriale e alla carità, è stato educato e aperto alla realtà da un cristianesimo amante del singolo uomo, unico e irripetibile, da un socialismo non ideologico, mosso da un rispetto profondo per la dignità della persona, da un liberalismo non gretto, volto al miglioramento delle condizioni di vita, proprie e del prossimo. Tutta la realtà economica e sociale del nostro paese testimonia le sue origini in un’idea di uomo e di lavoro più realista e positiva. Questa idea di uomo è il primo contributo di un investimento in capitale umano, la vera responsabilità sociale dell’impresa e ciò che potrà rendere un’impresa moderna e capace di rispondere ai bisogni della gente.

 

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