Capitale dell’eccellenza

n.4 - 2011

Se c’è qualcosa che mi colpisce negli ultimi anni, che mi hanno visto diventare con orgoglio cittadino milanese, è una distanza maggiore tra classi dirigenti – soprattutto politiche e culturali, meno negli ambiti imprenditoriali e finanziari – di quella che si riscontra nel resto del Nordovest e del Nordest. Nell’asse orizzontale della parte d’Italia che ha medie “tedesche” di produzione industriale, valore aggiunto e reddito procapite, il fisiologico contrasto tra idee diverse dello sviluppo e del fare buona amministrazione appare assai meno accidentato di quanto avvenga a Milano. È persino banale fare esempi. La rinascita di Torino e della sua grande area metropolitana intorno alle Olimpiadi invernali 2006 ha accomunato
più che diviso politica e cultura. A Venezia, città dove il segno politico è diverso da quello della Regione, si sono prodotti confronti anche animati, non permanente antagonismo.

 

A Milano, strumenti carichi di profonda innovazione come il nuovo Pgt, o la stessa idea progettuale dell’Expo 2015, non riescono a evitare contrapposizioni ancora radicali, contrasti di visione presentati con toni ultimativi come a proporre idee del presente e del futuro totalmente collidenti. Un’idea straordinaria come il tunnel sotterraneo da Linate alla Fiera di Rho-Pero suscita nella comunità accademica e nel dibattito politico toni addirittura  apocalittici. Per questo abbiamo messo mano a questa speciale riflessione dedicata ai maggiori aspetti delle scelte
da compiere, e di quanto è in cantiere. Su Milano più che su ogni altra grande città, esercita inevitabilmente una grande influenza la caratteristica di esser stata città promotrice delle più rilevanti novità politiche nazionali negli ultimi vent’anni, da Mani Pulite che portò alla fine della Prima Repubblica, alla Lega prima, a Berlusconi poi. Eppure, la città non è mai stata replicante speculare di ciascuna di queste potenti molle che ha scaricato nel resto del paese. Lo testimoniano i forti profili individuali dei sindaci succedutisi alla sua guida nella Seconda Repubblica.

 

Ne è conferma la caratura assolutamente personale di Letizia Moratti, irriducibile sia al “vento del Nord” del centrodestra in generale, sia al berlusconismo in particolare. Sono tutte caratteristiche che, in teoria, avrebbero dovuto o almeno potuto garantire a Milano un tasso di maggior convergenza civile sui grandi progetti di sviluppo, in linea per altro con quella plurisecolare tradizione di “cultura del fare” che è stata luce da Milano per l’Italia sin dai tempi dei protofisici del Seicento rispetto al sonno dell’Italia spagnola, per poi continuare con l’Illuminismo lombardo, e con la borghesia produttrice motore e anima di un Risorgimento lontano da ogni
prevalente interesse dinastico. Nella realtà, invece, all’osservatore esterno è come se
questo goodwill, erede di una lunga e luminosa tradizione, stenti a trovare espressione proprio in questi anni che sono invece decisivi. Lo sono perché l’orizzonte innanzi a noi della finanza pubblica postula comportamenti e scelte
che obbligano a far meglio con meno denaro dei contribuenti, e per questo bisogna esser capaci di saper fare più “pubblico” attraverso la sussidiarietà. Lo sono perché in
questi duri anni postcrisi sono le scelte che si sapranno compiere nella parte più avanzata d’Italia, quelle destinate a determinare le maggiori conseguenze incrementali di prodotto potenziale aggiuntivo nazionale.

 

Milano ha un grande bisogno di riconoscersi intorno a progetti “alti” di riutilizzo efficiente del territorio, che rappresentino un sistema di teletrasporto non solo
nell’intera congestionatissima realtà del Nord Italia, ma nel futuro di questo paese. Buona lettura, dunque. Il mio augurio è che tutti deponiamo quello spirito da guerra
civile permanente che impedisce ogni idea buona di futuro, perché nega radici comuni al presente e al passato.

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