Benedetto XVI ci ha impartito una lezione ineguagliabile sulla realtà dell’incarnazione

Alla notizia della rinuncia del Papa ho reagito come tutti i credenti, credo senza distinzioni fra tiepidi e impegnati o sedicenti tali, o giudicati tali dal mondo. Prima l’incredulità, la convinzione che si trattasse di uno scherzo rilanciato dalle reti sociali. E poi, quando è stato evidente che si trattava di fonti ufficiali, che la notizia era vera, un senso di ribellione e di scoramento. La reazione del figlio davanti al padre che gli annuncia che vuole andare a vivere in una residenza per anziani, quella che un tempo si chiamava semplicemente ospizio, e ancora prima almeno da noi in Romagna, il “ricovero”. «No, resta con noi! Ti aiuteremo noi a sopportare gli oltraggi dell’età!», è la reazione più naturale e spontanea. E a pesare non è tanto la delusione per un padre che pare dimettersi da padre, ma il senso di colpa. Come succederebbe per un padre nella carne. Se il Santo Padre rinuncia, più grande della mia delusione deve essere la delusione sua per il poco aiuto che gli abbiamo dato, per il poco amore che gli abbiamo mostrato, per la disattenzione ai suoi appelli, cioè alle sue preoccupazioni. Ce la siamo cavata con l’alibi che il Papa è assistito dallo Spirito Santo, che tutti in terra e in Cielo pregano per lui. Anche noi, quando ci ricordiamo o ce lo chiede il celebrante durante la Messa. E adesso ci sentiamo peggio che orfani, perché un padre che si allontana volontariamente dai figli fa soffrire questi più che se morisse.

Ma è stato lui stesso a rincuorarci in qualche modo, spiegando che quello che stava succedendo non lo attribuiva a nostre mancanze (mercoledì ha detto: «Ho sentito quasi fisicamente in questi giorni per me non facili l’amore che mi portate»), bensì era legato a un dato di fatto indipendente dalla sua e dalla nostra buona o cattiva volontà: «le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino», «il vigore sia del corpo, sia dell’animo, (…), negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Lo ha ripetuto all’udienza del mercoledì: «Ho fatto questo (…) consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede». Da cui la decisione di abbandonare. Il papa è un uomo, gli uomini invecchiano e invecchiando diventano sempre più deboli. Anche se sono assistiti dallo Spirito Santo, anche se un piccolo Stato è al loro servizio, anche se possono usufruire di cure di primo livello e di comodità. E siccome il compito di reggere la Chiesa è umano e sovrumano insieme, può venire il momento di prendere atto di un’umanità claudicante e di pronunciare le parole del Vangelo “Servi inutili siamo!”.

Chi si è rialzato dallo smarrimento prima di me ha formulato tutti i giudizi giusti che si potevano formulare: gesto umile, gesto di responsabilità, gesto profetico, gesto coerente, gesto di libertà, ecc., ma chi mi ha aiutato di più è chi ha detto o scritto: gesto umano. Parrebbe l’affermazione più scontata di tutte, e invece è la più profonda e rivoluzionaria, oggi come oggi. Siamo approdati a un tempo in cui un Papa ma anche un semplice cristiano non sono più investiti soltanto della missione di ricordare agli uomini che hanno bisogno di Dio, e quindi di annunciare Cristo agli uomini; oggi è diventata necessaria una premessa che in passato era ovvia: l’uomo non è Dio. Prima di annunciare che Dio è venuto fra noi bisogna aiutare a capire che non possiamo considerarci Dio.
Su questo punto si potrebbe trovare, e di fatto talvolta si trova, il sostegno di qualche ateo o agnostico intelligente, che comprende il pericolo di un’umanità convinta di potersi autodivinizzare. Ma la maggioranza degli atei, degli agnostici in genere e degli indifferenti purtroppo si trova in un’altra posizione: non sono atei ma auto-tei, si credono Dio e si comportano di conseguenza. Mentre paradossalmente il vicario di Cristo, il rappresentante di Dio in terra, sa di essere un uomo e si comporta come tale.

La rinuncia di Benedetto XVI (la chiamo rinuncia e non dimissioni, perché, come spiega Fabrice Hadjadj nell’intervista che è pubblicata sul Tempi in edicola, il secondo termine è ambiguo con una connotazione peggiorativa, quando invece la rinuncia è virile, dunque paterna) è coincisa con una sentenza di appello della Corte dei diritti umani, con cui è stato respinto il ricorso dell’Italia contro una prima sentenza che aveva dato ragione a due ricorrenti sulla seguente questione: la legge italiana riserva la fecondazione assistita alle coppie non fertili, pertanto discrimina quelle fertili che, per ragioni loro, vorrebbero fare uso delle tecniche artificiali di procreazione. E quali sono poi le ragioni che dovrebbero spingere una coppia apparentemente fertile a ricorrere alla fecondazione assistita? Ma che diamine, la preoccupazione di non lasciar venire al mondo figli malati, il diritto-dovere di produrre figli sani. E che importa se ciò cancella l’idea stessa di nascita, cioè di irruzione nel mondo di qualcosa di nuovo, di imprevisto, di non preventivamente deciso e programmato da noi? Che importa se il nascituro non potrà fare veramente esperienza della vita, perché la sua vita l’abbiamo già programmata noi? L’uomo si considera più buono e più intelligente di Dio (che permette ad esseri deformi di venire al mondo e vivere – secondo la vulgata corrente – lunghi anni nella depressione e nel dolore), ne prende il posto e decide chi deve venire al mondo, come e quando e le caratteristiche eccellenti che dovrà avere. E mentre Dio ha creato esseri liberi e fragili insieme, l’uomo vorrebbe creare esseri privi di libertà ma robustissimi.

Il Papa però con la sua decisione ha voluto dire anche qualcosa alla Chiesa. La maggioranza dei commentatori sottolinea la dimensione di Fede dell’atto del Papa: chi crede nel Dio cristiano, crede in un Dio che entra nella realtà creata e misteriosamente la regge, indirizzandola verso il compimento definitivo. Tanto più regge e indirizza la Chiesa, che ha voluto suscitare come segno speciale della sua presenza nel mondo. «La Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura», ha detto il Papa. Il che significa, fra le altre cose, che gli operai della vigna sono tutti necessari, ma nessuno di loro è indispensabile. Sommo Pontefice incluso.
Tutto questo è giustissimo e verissimo, ma personalmente la cosa che mi ha colpito di più è l’accento anti-spiritualista della decisione papale. Mi spiego: noi cristiani diciamo di credere al metodo dell’incarnazione scelto da Dio, ma poi lo depotenziamo appiciccandoci sopra idee spiritualiste. La Grazia, l’assistenza dello Spirito Santo, le intercessioni dei santi e della Vergine Maria per noi presso Dio diventano altrettante forze di natura magica che ci esonerano dalle lentezze e dalle pesantezze della carne, oppure che “dopano” l’anima e il corpo per fargli fare cose che altrimenti non sarebbero in grado di fare. Non è così. A rendere i cristiani capaci di fare a volte cose impensabili non è un potere magico, ma un rapporto.
Certo, i miracoli veri e propri esistono, ciascuno di noi nella vita ha fatto esperienza di eventi eccezionali come quelli che Cristo compiva per le strade della Palestina quasi duemila anni fa. Ma il miracolo ordinario è un altro: è vedere gente che affronta le durezze della vita, che si lancia in imprese ad alto rischio, che sopporta ostilità ed emarginazione grazie al sostegno di una compagnia: l’amicizia di Cristo, che si rende presente in vari modi e forme nella vita dei cristiani.
Per fare dei paragoni: è come il marito che affronta con entusiasmo sfide proibitive sul lavoro perché sa che la sua donna lo ama e lo sostiene; è come il ragazzo che dà l’esame universitario con più fiducia perché sente tutta la stima di suo padre e di sua madre per lui; è come la squadra di calcio che veleggia nella bassa classifica, ma che quando gioca in casa si trasforma in temibile compagine grazie al sostegno del suo pubblico. La Grazia funziona più o meno allo stesso modo: è efficace, ma non esenta il cristiano dalla fatica e dalla fragilità che sono parte della condizione umana.

Dunque da una parte c’è sì una forza misteriosa che soccorre l’uomo, ma non è magia, è la pura e semplice forza dell’amore: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, Nostro Signore». Così san Paolo nella Lettera ai Romani.
Il cristiano è certo dell’amore di Dio, mentre la comune condizione umana è tutta pervasa del tormento sull’amore che vorremmo che gli altri avessero per noi, ma di cui non siamo mai fino in fondo certi: chiediamo sempre nuove “prove dell’amore”, i segni che abbiamo non ci bastano mai.

Dall’altra parte ci sono la corporeità umana e la sua attuale condizione di debolezza e di mortalità. Che non è stata risparmiata nemmeno a Gesù il figlio di Dio fatto uomo. E qui la cosa che ha sempre colpito chi legge il Vangelo non è che Gesù, nonostante la dichiarata natura divina, patisce e muore come ogni altro essere umano. Ma soprattutto che soffre la paura, l’incertezza e il dubbio proprio come succede tante volte a noi. È lui che prega «Padre, se è possibile allontana da me questo calice», e già inchiodato alla croce sceglie la più dolente e insicura delle preghiere, quella del salmo 21: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza».
Certo, nell’orto del Getsemani Gesù conclude la sua meditazione affermando «però non la mia, ma la tua volontà sia fatta», e il prosieguo del salmo 21 narra la passione del giusto descrivendo profeticamente la crocifissione di Cristo e termina con la lode fiduciosa del Signore. Ma il fatto resta: Gesù ha tremato, Gesù ha dubitato. Proprio perché vero uomo. Anche lui, come Benedetto XVI, ha sentito il venir meno del «vigore sia del corpo, sia dell’animo».
Fa un po’ sorridere chi vorrebbe fermare qui la similitudine, argomentando che Cristo non è sceso dalla croce, ma Ratzinger invece sì. Non è croce il farsi da parte, il rinunciare a un grande potere, l’umiliazione di scendere dal trono per far posto a qualcun’altro? La certezza di essere ricordato da tutti come il primo papa dopo quasi 700 anni che ha deciso di ritirarsi? E conoscendo più di chiunque altro tutti i problemi, i peccati e le infedeltà della Chiesa, avendone preso pienamente coscienza nei quasi otto anni di pontificato, soffrirà forse meno perché non è più papa?

Benedetto XVI ci ha impartito una lezione ineguagliabile sulla realtà dell’incarnazione. Il modo in cui l’ha compresa e vissuta è l’eredità più importante che ci lascia; il suo gesto finale, non che rinuncia alla paternità è invece pienamente paterno: è volto a far crescere i figli, a prezzo del sacrificio del padre. E la sua lucidità è arrivata fino al dettaglio di invocare sui cardinali riuniti nel prossimo conclave principalmente l’assistenza non dello Spirito Santo, ma della Vergine Maria: «Affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore», ha detto, «e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinchè assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice». Il prossimo papa sarà anch’egli un uomo, come ogni uomo nato dalla carne di una donna. Saranno suoi gli slanci e le fragilità della carne umana. Su quel mistero veglia Colei che generò Cristo.

@RodolfoCasadei

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