Arnaldo Pomodoro. Ritratto di un grande artista artigiano

Il silenzio della scultura che illumina il mondo. Il «risveglio atroce» della guerra e il «dormiveglia indistinto» del presente. L'Italia e le sue fortune dimenticate. Ritratto di Arnaldo Pomodoro

«L’arte è un matrimonio tra l’ideale e il reale. La creazione artistica è una branca dell’artigianato. Gli artisti sono degli artigiani, più vicini ai falegnami e ai saldatori di quanto non lo siano agli intellettuali e agli accademici, con la loro gonfia retorica autoreferenziale. L’arte usa i sensi e parla ai sensi. Affonda le sue radici nel mondo fisico tangibile. (…) Un’ortodossia monolitica ha abbandonato gli artisti in un ghetto di opinioni scontate e li ha tagliati fuori dalle idee fresche. Nulla è più trito del dogma progressista secondo il quale un valore scioccante conferisce automaticamente importanza a un’opera d’arte» (Camille Paglia)

Artigiano, falegname, saldatore. Arnaldo Pomodoro (foto di Rossano B. Maniscalchi) è un uomo prezioso. Perché possiede un temperamento solare. E perché è un artista curioso. Due qualità che sembrano scarseggiare tra gli artisti attuali. Caratterizzati da uno spleen che si esprime in forme di nichilismo abbastanza trite e prevedibili. E in un’espressività dell’angoscia dei tempi («l’Angoscia atroce, dispotica» che «pianta sopra il cranio chinato la sua bandiera nera», direbbe Baudelaire), spesso ridotta a banale ripetizione di mozioni da agenda politica progressista. «Altrettanto colpevole di rigido letteralismo e di propaganda – ha recentemente scritto Camille Paglia – quanto un qualsiasi predicatore vittoriano o un burocrate stalinista». Per il maestro Arnaldo, invece, al netto della retorica – poiché «la retorica è nefasta» –, la scultura «ha una grossa responsabilità. Può essere più dinamica. Come quella di Picasso. O più pensata. Come quella di Brancusi. Ma rimane silenzio che invade lo spazio. O silenziosa lingua, come negli Ittiti che scolpivano gli ordini per la guerra. O come negli aztechi, dove sculture incise nell’oro celebravano il misterioso e terribile potere degli dei». Insomma, scultura è l’arte dello spazio offerta ai propri simili per interpretare e “illuminare” il mondo. Come si accorse lo scrittore Mario Soldati quella mattina che, aggirandosi per il centro di Milano, vide ergersi dalla bruma il famoso disco di Pomodoro piantato nell’aiuola che spartisce il traffico delle cinque vie che sfociano in piazza Meda. «Stamane ho visto una cosa stupenda. Un bronzo che non ha paura della nebbia. Un sole a Milano». E così, oltre a questa solarità, il manufatto del maestro Arnaldo è posseduto da un’indole curiosa e intrigante. Per esempio, negli strani ghirigori argentei, nelle forme squarciate e corrose, nelle sfere e nelle monumentali colonne bronzee. Tutte opere che sono collocate in luoghi celebri del mondo. Dal palazzo delle Nazioni Unite a New York al cortile della Pigna in Vaticano; dalla Farnesina a Roma al Trinity College di Dublino; dal palazzo della Gioventù a Mosca al piazzale del Water and Power Building a Los Angeles. Opere che hanno la stessa matrice e le stesse forme fantasiose di quelle in cui ci si imbatte, appena varcata la soglia, nel cortile della nuova sede della Fondazione Arnaldo Pomodoro, in via Vigevano 9, Milano. Città e patria adottiva di un artista dalla “scrittura sconcertante”, come recita il titolo della mostra appena inaugurata e che resterà aperta fino al 28 giugno.

Classe 1926 (23 giugno, marchigiano del Montefeltro), la data di nascita di Arnaldo Pomodoro è già indicazione di una certa sensibilità. «Non ho mai amato l’arte figurativa – eccetto naturalmente i grandi classici –. La vera lezione ce l’hanno data i costruttivisti: in una stanza la scultura può occupare un angolo e una ragnatela di fili tesi può essere scultura a tuttotondo, oppure, all’esterno, la scultura diventa il modo di mutare il senso di una piazza e inventare uno spazio per la dimensione urbana». E proprio al 1925 risalgono le prime definizioni di “arte costruttivista”. Per connotare un certo stile di design industriale, oggetti di largo consumo e scenografie teatrali. Siamo ancora agli inizi del cosiddetto “secolo breve”, quando gli artisti manipolano, decompongono e ricompongono la materia offerta loro dalla produzione industriale, dall’invenzione scientifica e dalla rivoluzione tecnologica. «Fin da bambino ho sentito questa attrazione per la materia nello spazio. Sono un autodidatta. Ho studiato da geometra. Nel primo dopoguerra, durante il tempo libero che mi consentiva il mio impiego al genio civile (lavoravo alla ricostruzione nella zona della famosa “linea gotica” che fu duramente bombardata per frenare la marcia della quinta armata americana e proteggere la ritirata tedesca), cominciai per gioco a costruire e ad elaborare fantasiose scenografie teatrali. Non lavoravo per un pubblico. Solo per la mia personale soddisfazione. Forse quello era il modo per fugare certe mie ansie, dubbi, incertezze della vita di allora».
Famiglia di forti idealità e, soprattutto, di impronta matriarcale. «Mia nonna era molto religiosa. Mia madre un po’ meno. Il suo credo era il socialismo. E quando le fecero bere l’olio di ricino a causa dell’attività “sovversiva” dei fratelli, attivisti socialisti nella Predappio del Duce, mia madre divenne ancora più religiosa. Nel senso di Nenni. Il mio ceppo è questo. In un camposanto dalle mie parti c’è una lapide in memoria del papà di mia nonna. Il suo epitaffio è questo: “Antonio Spadoni riceve qui l’eroe dei due mondi: Giuseppe Garibaldi”. Sono cresciuto così, in una casa dove sopra il caminetto campeggiavano le immagini di Garibalidi, Mazzini e Cavour. E sopra a tutti, il Crocifisso». Dunque, ricevette anche un’educazione religiosa, nel senso della Chiesa cattolica. «Guardi, ho fatto tanto di quel catechismo! Peccato che il povero sacerdote non rispondeva mai alle mie domande. Diceva che le cose stavano in un certo modo e che bisognava “crederle”. Ho dovuto prendere un vocabolario per capire cosa volesse dire “dogma”. Capisce perché poi non mi sono più appassionato alla religione, pur avendone a tutt’oggi grande rispetto?». Però “il sole dell’avvenire” ha mantenuto un suo bell’altare nella sua, diciamo così, “chiesa” domestica. «Guardi, per me politica è una sola cosa: democrazia. Ho bisogno di una democrazia che mi lasci lavorare in pace, senza divieti e senza uniformi. Libero. Prenda il caso del disco in piazza Meda che, prima di arrivare a Milano nel 1980, era stato per qualche anno nella piazza di Vigevano per iniziativa di un gruppo di giovani “Amici del Castello”. In accordo con le autorità cittadine, avevano pensato che con quella collocazione si sarebbe potuto limitare il traffico e il parcheggio nella piazza. Lo scopo fu raggiunto, ma poi una serie di contrasti e incomprensioni da parte dei vigevanesi portarono alla decisione di rimuovere l’opera. Fortunatamente Carlo Tognoli, allora sindaco di Milano, in visita a Vigevano, venne per caso a conoscenza della situazione e mi fece subito la proposta – che io accolsi con entusiasmo – di portare il Disco a Milano, tanto più che sarebbe stato collocato in piazza Meda, nel cuore della città. Oggi, forse, sarebbe tutto più complicato».

«L’AGRIMENSORE DI KAFKA SONO IO». Pablo Picasso e Constantin Brancusi. Sono i due artisti che Arnaldo Pomodoro colloca in un personale olimpo degli dei. L’Uccello nello Spazio di Brancusi che prefigura i missili lanciati nello spazio. E il genio puro. «Come Picasso, nella storia dell’arte ce ne sono pochissimi. Ho ancora nitidamente impresso nella memoria il Guernica che vidi esposto nel 1952 a Palazzo Reale. Quella sala delle Cariatidi con la meravigliosa mostra di Picasso. E poi il ricordo della fantastica vitalità artistica nella Milano dei primi anni Cinquanta. Quando erano ancora visibili le ferite dei bombardamenti, ma si era già nel pieno della ripresa e della ricostruzione, dopo le devastazioni della guerra, di una città nuova e di una nuova cultura». Gli anni del grande dopoguerra. «Sì, perché, vede, la guerra è una cosa terribile. Però è anche una rottura che prelude al nuovo. Un risveglio atroce, ma un risveglio. Adesso viviamo come in un dormiveglia indistinto, ma si percepisce che qualcosa di nuovo stia arrivando. Deve arrivare».
Le opere di Pomodoro scandiscono e celebrano siti e simboli della modernità. L’artista compirà tra qualche mese 87 anni e sarà un ennesimo traguardo di una vita pienamente compiuta. Realizzata. Eppure adesso pare che il maestro Arnaldo abbia ancora fretta di guardare avanti. Affondando lo sguardo in quel sogno e desiderio della sua giovinezza. Non gli interessa la retrospettiva della sua immensa produzione artistica. Gli interessa rievocare quel ragazzo che lesse Franz Kafka e se ne innamorò quasi identificandosi con i grandi personaggi dello scrittore praghese. «L’agrimensore protagonista del Castello ero proprio io. E guarda caso anch’io avevo a che fare col catasto mentre coltivavo in privato il mio sogno di artista». È successo come succede in un’avventura salgariana. Trasformata però in mestiere di artigiano. «Mi sono fatto da solo». E il self-made man Pomodoro ha forse questo accento tipico dell’imprenditorialità lombarda. Mescolata alla mitica way of life del sogno americano. «In effetti mi sono trasferito da Pesaro a Milano perché la provincia non dava spazio ai miei sogni e ai miei progetti». Perché Milano? «Perché era già allora la città italiana più cosmopolita. E perché la immaginavo come un ponte verso “la mia America”».
Pomodoro ricorda la terza pagina del Corriere della Sera. «È su quella pagina di elzeviri, arte, letteratura, poesia, che mi sono formato alla cultura. È lì che ho scoperto Pavese, Montale, Buzzati… A Milano avevo conosciuto Fernanda Pivano e Ettore Sottsass: in casa loro ho avuto i primi incontri con gli “americani” – non solo scrittori e poeti, ma artisti, architetti, compositori e perfino jazzisti». Il sogno d’Oltreoceano veniva da lontano. Spuntato in paese, da ragazzo. Tra le rovine dalla guerra. «C’era a Orciano una signora di cui oggi mi spiace non ricordare il nome, che aveva sposato un americano. Attraverso di lei, quasi per osmosi, mi ero fatto l’idea degli Stati Uniti come di un mondo nuovo». E “mondo nuovo” fu. Ma ci sono ancora novità, c’è vita nel panorama dell’arte attuale? «Più l’arte è seria, più cresce e annuncia il nuovo lavorando in sordina. Certo, nell’arte ci deve essere sempre invenzione, ironia, trovata geniale. Penso, per esempio, a Andy Warhol. Ma oggi si avverte una certa crisi. È un momento complesso di grande cambiamento. Personalmente, mi interessa il lavoro di Kounellis e Cattelan per i loro messaggi controversi. Il Dito di Cattelan davanti alla Borsa in piazza Affari a Milano è una trovata intelligente e spiritosa, una bella risposta a chi si diverte con i soldi degli altri». (Sopra, Grande disco, 1972, bronzo, piazza Meda, Milano. Foto di Francesco Radino).

 


IL NOSTRO EGO FORTE E SMEMORATO. 
E che pensa dell’Italia il nostro ultraottuagenario che ama ancora scorrazzare in giro per il mondo? «Penso quello che pensa ogni italiano di buon senso: siamo messi male, speriamo nei giovani. Il problema di noi italiani è che abbiamo un forte ego. Siamo gelosi della nostra libertà di sognare ma dovremmo essere più uniti. Invece ci piace dividerci, criticarci, fare baruffa. Guardi, quando sono all’estero e sento parlare male degli italiani, sono imbarazzato e addolorato. Però è vero, sembra che non si capisca mai abbastanza la fortuna che abbiamo. Una persona religiosa potrebbe ben dire che siamo un popolo benedetto dalla Provvidenza, io dico che possediamo il più grande patrimonio d’arte al mondo e abbiamo un paesaggio, una cultura, un clima, una qualità della vita che ci invidiano tutti. Dovremmo ricordarcele un po’ più spesso queste cose. E, soprattutto, renderci finalmente responsabili di preservarle e custodirle». Chi proporrebbe Arnaldo Pomodoro come prossimo presidente della Repubblica? «Fortunatamente abbiamo ancora tante persone degne. Però, mi lasci dire, sono molto affezionato alla figura di Giorgio Napolitano. È stato un presidente straordinario e mi auguro che tutti abbiano compreso e facciano tesoro della saggezza e dell’equilibrio con cui ha guidato e rappresentato nel mondo l’Italia, in un periodo così critico e burrascoso».
Non ci resta che accomiatarci dall’artista di cotanta famiglia di artisti. «Non solo artisti. Un altro filone dello nostro ceppo viene da una tradizione di togati. Mia cugina Livia è magistrato, presidente del Tribunale di Milano. E un mio bisnonno fu presidente della Corte di Cassazione. Nella nostra famiglia siamo tre fratelli. Gio’, artista e scultore come me, scomparso nel 2002. E mia sorella Teresa, la più giovane, che mi ha sempre sostenuto in tutte le situazioni con intelligenza e sensibilità. Quando incontro gente che mi dice “beato te che fai questo lavoro”, rispondo: sì, beato, perché sono protetto nella mia esuberanza da persone che mi vogliono bene».

@LuigiAmicone

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