Viva la tecnica quando è a fin di bene, abbasso l’umanesimo virtuale

La campagna “The Greatest” di Apple mostra le mirabilie di una tecnologia al servizio dell'uomo reale. Che ci importa essere perfetti nell'irrealtà del Metaverso?

«I am the greatest». Adamo saltellava cantando questo ritornello, dopo che il Signore aveva soffiato sul cumulo di terra e lo aveva creato. Il dominio sulle creature, il dare un nome alle cose, tutto andava bene, poi quel consiglio biforcuto, un delirio di onnipotenza virtuale e sappiamo come andò a finire.

Qualche milione di secoli più tardi, la mela colpisce ancora, ma stavolta forse in bene. Dopo tutti questi anni e più di duemila di cristianità, il frutto chiamato Apple è ancora nelle mani di striscianti ammaliatori, ma per una volta esibisce un gusto autentico, quasi benefico. Sarà forse complice la svista di qualche Malacoda californiano alle prime armi.

La ragazza senza braccia

L’azienda tech di Cupertino più famosa del mondo (Apple, nda) che, come tutte le sue sorelle (Meta, Google, Amazon), assomiglia sempre di più a una compagnia pubblicitaria, ha lanciato la campagna “The Greatest”, in occasione della giornata mondiale della disabilità, il 3 dicembre.

Nel video promozionale, una ragazza si sveglia nel suo letto e dice: «Ehi Siri, imposta la consuetudine mattutina» e Siri: «Al momento il cielo è sereno e fanno 21 gradi». Nel frattempo, il sistema intelligente tira le tende e fa entrare i raggi del sole. La bella ragazza si mette a sedere e prende un respiro, non ha le braccia.

Veniamo trasportati nella routine quotidiana di sette personaggi in cerca di vita: un ragazzo baffuto sulla sedia a rotelle, una cheerleader con la sindrome di down, una mamma sorda con il suo bambino, un deejay portoricano con la macchina d’ossigeno, un’infermiera affetta da nanismo e un elegante signore cieco.

Il bambino piange

Ognuno di loro canticchia la vivace canzone “I am the greatest”, mentre si fa aiutare dall’iPhone a svolgere le attività della giornata: la ragazza senza braccia usa il telefono con i piedi grazie al nuovo assistive touch, una tecnologia che riconosce meglio il movimento e così riesce a truccarsi; l’elegante uomo con gli occhiali neri è un pianista (ma guarda un po’) e, grazie al door detection del suo telefono, capisce in quale porta entrare per esibirsi sul palcoscenico; la cheerleader con trisomia legge una citazione di Muhammad Ali («I have wrestled with the alligator, tussled with the whale», ho lottato con l’alligatore, ho combattuto con la balena), grazie al voice control del suo computer.

La tensione narrativa continua a salire, fin quando la musica ammutolisce e assistiamo al pianto senza suono del bambino, la mamma sorda sullo sfondo è impegnata ai fornelli. Una notifica illumina il suo Apple Watch: «Bambino che piange – il sistema ha rilevato questo suono», così si lancia nel salotto e lo prende in braccio.

Ho messo il mondo sottosopra

Da qui il gran finale dove ogni personaggio canta una sua virtù: «Sono giovane», «sono una meraviglia», «sono veloce», «sono una bellezza, il campione del mondo dovrebbe essere bello come me!» e tutti insieme recitano: «Cosa faremo? Danzeremo!», mentre il deejay latino fa risuonare un ritmo dal suo stereo. Il loro versetto finale è lo slogan della progenie di Adamo: «I shook the world» (ho messo il mondo sottosopra).

Ecco la Speranza sprizzare, per una distrazione, anche dalla Giudecca della Silicon Valley, ecco la virtù che stupisce lo stesso Dio: quell’ostinata convinzione per cui la pioggia diventa alimento per i campi, quando si costruiscano degli argini ben fatti; quella folle certezza del bene, per cui un uomo perde una gamba e si costruisce un bastone. Lode alla tecnica dunque, potere con cui pieghiamo il creato al nostro servizio. Viva i computer, le door detection, i vaccini, il voice recognition, viva la lampadina! Viva i razzi, per conquistare Marte prima e la via Lattea poi.

Un sistema talmente perfetto…

Ma è solo una svista, i miliardi e la comunicazione del mondo tech vanno nella direzione opposta: le mura di casa. L’umanesimo virtuale dei Metaversi non ha bisogno di esplorare nulla, gli bastano un paio di occhiali 3D e un monolocale a vita, tanto c’è la villa con piscina immaginaria.

È qualcosa di così avvincente che all’evento di lancio del Metaverso dell’Unione Europea (ebbene sì, esiste, si chiama Global Gateway ed è costato 400 mila euro) erano collegati in sei (controllare per credere). D’altronde il programma era irrinunciabile: “Riflettere su questioni globali per fare la differenza per il nostro futuro condiviso”, tutti le sei persone collegate ne hanno colto la profonda importanza.

In occasione della giornata mondiale della disabilità, il Metaverso ci invita a riflettere sul fatto che nessun avatar ha difetti, lo puoi fare alto, basso, elastico e di tutti i generi più uno, anche a giorni alterni. Non esiste costrizione nel mondo che non c’è! A cosa serve dominare il mondo quando c’è un sistema talmente perfetto che nessuno avrà più bisogno di essere disabile?

Exit mobile version