Addio Pdl? Se il popolo di Silvio si autodivora

I dirigenti del Pdl paiono non capire cosa gli succede attorno, cercano disperatamente un capro espiatorio, e non sanno che i capri espiatori saranno loro

Le onnivore e impudenti baldorie dei consiglieri della Regione Lazio dimostrano non tanto che la casta sta ingoiando sé medesima, che i politici hanno varcato a petto in fuori i confini della presentabilità, che serve un diserbante efficace e via grilleggiando. Qui restiamo persuasi che il pesce puzza dalla testa, e però puzza tutto. Le simpatiche e classicheggianti feste, diciamo così, organizzate dal consigliere pidiellino Carletto De Romanis, che si circondava di colleghi di partito e di coalizione, amici professionisti, giovani imprenditori, la meglio gioventù di Romanord, com’è chiamata ed è più un luogo dell’anima che della capitale (l’eccellente Alberto Infelise della Stampa ha scritto che quelli di Romanord si riconoscono dall’esclamazione “cioè ggiurah!”), erano baccanali, come si vede, aperti al mondo. Tutto il sistema idrovoro messo in piedi sotto gli occhi della governatrice Renata Polverini era un sistema coinvolgente, qualificato da fatture false o gonfiate con la gentile collaborazione di ristoratori, vinai, fotografi, funzionari. Intascavano quattrini fantomatiche associazioni di amici del pecorino o introvabili club per la difesa del geco. Sin dai tempi della presidenza di Piero Marrazzo, decine e decine di migliaia di euro hanno mantenuto in vita ultraperiferiche rassegne teatrali o manifestazioni in difesa della cultura subcollinare. Una bella fantasia globale, insomma, dentro cui il centrodestra s’è tuffato come fosse un mare. E c’erano emittenti televisive, siti d’informazione, bisettimanali di condominio che si facevano pagare in cambio di interviste a questo o quel consigliere, o in cambio della copertura di annichilenti conferenze stampa. Insomma, gira la medaglia e dietro la faccia dei politici c’è quella parallela  della sempre più mitica società civile. Un esercito di mantenuti ad animare la perenne fiera italiana del clientelismo. Questo per dire che ogni paese ha la classe dirigente che si merita, come è stato spesso e giustamente detto. E viceversa.

Va detto perché se si pensasse di risolvere tutto con una retata catartica, come è successo esattamente vent’anni fa, e con la sostituzione di un’intera classe dirigente con le seconde o le terze file, e con l’aggiunta delle truppe di qualche taumaturgo digrignante, si finirebbe col venire a capo di un bel nulla. Piuttosto le onnivore e impudenti baldorie dei consiglieri della Regione Lazio dimostrano che un sistema di potere sta affondando nella protervia leaderistica dei suoi stessi protagonisti. Il vero dramma risiede infatti nel mollaccioso e respingente derby che si gioca quotidianamente. Se si parla delle ruberie laziali, salta sicuramente su qualche capoccione di centrodestra a chiedersi chissà perché nessuno si occupi dei guai di Vasco Errani indagato in Emilia o della Toscana, in eterno dominio di sinistra, e sono guai che si chiamano sontuosi impasti parentali e voragine nei conti sanitari (la sola Asl di Massa Carrara ha un deficit di 300 milioni di euro). Se si parla degli stipendi dei parlamentari, i parlamentari ti dicono che i consiglieri provinciali sono peggio. Se si parla di Filippo Penati, ti dicono di parlare anche del presidente del consiglio regionale calabrese, Francesco Talarico, Udc, che guadagna 700 mila euro l’anno, più o meno l’attuale dotazione di un centravanti titolare del Milan (che però non è pagato coi soldi delle tasse). Insomma, ognuno che si ritrovi il dito puntato contro, ci mette un attimo a rigirarlo verso chi è peggio di lui, in un interminabile gioco dell’oca che non porta da nessuna parte. Non più, almeno.

E, ancora, le onnivore e impudenti baldorie dei consiglieri della Regione Lazio dimostrano che la creatura di Silvio Berlusconi – un grande partito o una grande coalizione di centrodestra fondata sull’anticomunismo dei reduci del Pentapartito (tale fu, gratta gratta, Forza Italia) e sulla sacrosanta fuoriuscita dalle catacombe dei nipoti e bisnipoti del Partito nazionale fascista – non si è mai completata ma si è via via indebolita, e ora sta sprofondando più nel ridicolo che nella vergogna. Insistiamo: non solo e non tanto per furti e gozzoviglie, ma piuttosto per lo spettacolo umano che dalla Sicilia (che fu quella dei sessantuno parlamentari a zero, e ora è quella della più familistica diaspora) alla Lombardia (dove per quindici anni abbondanti il potere si è retto sull’asse Roberto Formigoni- Lega Nord, e poi sulla Lombardia ci tornere mo) è offerto da una leadership che non ha più un ruolo e un significato ed è totalmente incapace di una reazione che non sia sciatta e gutturale.

RISPOSTE TARDIVE E INSUFFICIENTI. L’analisi è fatta presto. Basta andare alla Pisana, la sede del Consiglio regionale del Lazio, per trovare tutto il catalogo. C’è la ragazza molto carina, molto elegante, tendenza hostess, con qualche difficoltà nella domatura della sintassi, protagonista di cene eleganti; si chiama Veronica Cappellaro ed è una delle perfette rappresentazioni finali del berlusconismo, con quei mille e passa euro spesi per la foto del sito, e cioè il tutto che si esaurisce in uno scatto d’apparenza. C’è il ragazzo molto manichineggiante, o così parrebbe a prima vista, tutto molto grigio e blu e cravatta seriale, scarpe superlucide, occhio pendulo verso qualsiasi paraggio di fondoschiena, una vita che comincia sempre dopo le otto di sera, che siano le trimalcionate romane o le adunate di pariolini a Bruxelles, dove Berlusconi raccontava barzellette ospitando sulle ginocchia la biondina migliore; è Carlo De Romanis, altra perfetta rappresentazione finale del berlusconismo, e anche in questo caso clamorosamente nettata di tutto ciò di buono che il berlusconismo è stato.

C’è naturalmente il federale di Anagni, il già leggendario Francone Fiorito, in origine storaciano, rimasto per aspirazione di potere in An e poi nel Pdl. È parlando di lui, e della schiatta sua, ormai dominante nella destra romana, che un ragazzo di quelli che andavano in giro ad attaccar manifesti (e talvolta ad attaccar briga coi rossi) ha detto: «Siamo passati dal me ne frego d’opposizione al me frego tutto». I tanti di quella destra romana – raggelati dalla svolta regimental e Taittinger di quella che era stata la brusca truppa almine di responsabilità. Il presidente Polverini ci ha messo otto giorni per mollare la barca, in un saliscendi da tappone dolomitico fra le dimissioni da dare e le dimissioni da negare, fra le irruzioni alla bersagliera in Consiglio regionale, con discorsi di ringhiera e insulti trasteverini, e i ritorni nella medesima aula con animo contrito, e gratitudine diffusa per i tagli agli emolumenti e alle dotazioni nel frattempo incardinati. E infine l’addio al napalm a un’assemblea che – ha detto la Polverini – è vile e ladra da destra a sinistra, nessuno escluso, e da ben prima del suo arrivo. Embè? E dirlo prima? Lo si racconta perché tutta questa vicenda dà l’immagine del Pdl oggi. Silvio Berlusconi non ha detto nulla, limitandosi a telefonate di blandizie alla presidente, che doveva resistere e rantiana, e tuttavia per niente nostalgici del recinto soprattutto psicologico e rancoroso in cui sono rimasti fino all’inizio della Seconda Repubblica – sostengono che i camerati (gli ex camerati) erano usciti dalle fogne come i deportati dai campi di concentramento, con una fame così atavica, così insaziabile, così allucinata, che si sono buttati a fauci spalancate su ogni poltrona e su ogni sgabello, su ogni assegno e su ogni spicciolo, su ogni ostrica e su ogni cofana, e si sono abboffati al punto da morirne in pochi anni. Uno spettacolo tra lo stupefacente e l’imbarazzante. Ma questa monumentale piazzata sarebbe anche rimediabile se ci fosse un’assunzione di responsabilità. Il presidente Polverini ci ha messo otto giorni per mollare la barca, in un saliscendi da tappone dolomitico fra le dimissioni da dare e le dimissioni da negare, fra le irruzioni alla bersagliera in Consiglio regionale, con discorsi di ringhiera e insulti trasteverini, e i ritorni nella medesima aula con animo contrito, e gratitudine diffusa per i tagli agli emolumenti e alle dotazioni nel frattempo incardinati. E infine l’addio al napalm a un’assemblea che – ha detto la Polverini – è vile e ladra da destra a sinistra, nessuno escluso, e da ben prima del suo arrivo. Embè? E dirlo prima?

Lo si racconta perché tutta questa vicenda dà l’immagine del Pdl oggi. Silvio Berlusconi non ha detto nulla, limitandosi a telefonate di blandizie alla presidente, che doveva resistere e resistere. Angelino Alfano si è battuto fino all’ultimo perché la Polverini non lasciasse (e ha lasciato) esattamente come si era battuto perché Nicole Minetti lasciasse (e non ha lasciato). Il resto del colonnellume si è impegnato in dissertazioni sulle mele marce da lasciare senza fiato, e in elogi alla fiera e spietata reazione polveriniana, in realtà tardiva, superficiale, vagamente omertosa, insufficiente e cieca. Qui siamo davanti a una classe politica persuasa (scusate la trita metafora, ma rende) che chiudere la stalla quando i buoi sono scappati sia ancora bastevole. Inetta davanti alla furia da forcone di un popolo non particolarmente virtuoso, in realtà, e pertanto, come da sempre la storia insegna, incline al linciaggio. Incredibilmente appesa alle prestazioni gutturali da talk show, durante i quali si sono visti assalti furibondi e isterici al pessimo Fiorito da parte di parlamentari e dirigenti nazionali del Pdl che da qualche anno non capiscono più nulla di quello che gli sta capitando attorno, e dunque alla disperata ricerca di un capro espiatorio, e non sanno che i capri espiatori saranno loro.

LE FONDAMENTA DEL PIRELLONE. È difficile immaginare una via d’uscita per il partito berlusconiano e il silenzio del capo ne è la prova regina. La situazione è troppo grave e il tempo troppo poco. Ma sarebbe già un inizio, e quindi già più di un po’, la presa d’atto che quella storia lì è finita, e bisogna cercare una nuova strada. Ed è qui che torniamo a parlare di Lombardia. Roberto Formigoni non l’avrebbe gui- data per quasi vent’anni se non fosse stato un bravo governatore, forse eccellente, sorretto da fondamenta politiche, economiche e sociali serie e forti. Delle ultime vicende poco ci importano i risvolti penali: quelli si vedranno in tribunale se in tribunale mai ci arriveranno. Ma da un punto di vista politico dànno la conferma ulteriore del declino. Formigoni è apparso criticabile per i comportamenti privati e per un sistema di governo che non si direbbe efficace e cristallino come una volta. Le sue fondamenta politiche, economiche e sociali non sono più serie o forti come lo erano. Non sappiamo che cosa abbia da fare Formigoni, se dimettersi oppure no. Siamo però certi che è inevitabile prendere atto che il sole sta tramontando, e fingere che sia pieno pomeriggio è peggio di un autoinganno: un suicidio.

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