Addio Elio Fiorucci. La sua “dichiarazione d’amore” a Milano

Il grande stilista è stato trovato morto la mattina di lunedì 20 luglio nella sua casa in viale Vittorio Veneto. Ecco come raccontò a Tempi la sua straordinaria parabola personale e professionale. Dall'Italia al mondo intero

Questa mattina il grande stilista italiano Elio Fiorucci è stato trovato morto nella sua casa in viale Vittorio Veneto a Milano. Firma portante del made in Italy, Fiorucci aveva da poco compiuto 80 anni (10 giugno). Secondo diversi organi di informazione, che citano fonti dei carabinieri, non rispondeva al telefono da domenica, fatto insolito che aveva spinto i familiari a dare l’allarme. L’ufficio stampa del gruppo comunica che lo stilista «godeva di buona salute», ma l’ipotesi per ora più accreditata è che Fiorucci sia stato colto da un malore improvviso, forse già nella sera di domenica.

Riproponiamo qui un’intervista concessa a Tempi e pubblicata all’interno del “Dossier Milano” del 29 maggio 2008.

«Penso che a Milano ci sia un sostrato di America. Perché il milanese ha in fondo una grande capacità di accettare il nuovo»: è la dichiarazione d’amore alla sua città dello stilista Elio Fiorucci. «Milan col coeur in man si dice: è vero, è una città molto generosa. I milanesi sono sempre stati un popolo di grande amore». Milano per lui è sempre venuta prima di tutto il resto, anche delle grandi metropoli mondiali dove via via ha aperto i suoi punti vendita. Elio ha lavorato con Jean Paul Gautier e Vivienne Westwood. Truman Capote firmava copie dei suoi libri nel negozio Fiorucci a New York, dove Andy Warhol era di casa. A Fiorucci fu commissionata la festa di inaugurazione della mitica discoteca newyorkese Studio 54, e alla festa per i 15 anni del marchio esordì con il suo primo concerto una (all’epoca) giovane dj: Madonna.

Ma lui è sempre tornato nella sua piazza San Babila. A questo simpatico signore si devono autentici capisaldi, della moda ma non solo: ha importato lui le prime minigonne, i body, gli scaldamuscoli e i leggins, i pattini e lo skateboard, gli hamburger, le guépiere e il tanga. I segni di tante epoche – gli anni 60, i 70, gli 80 – sono passati tutti da quel negozio in Galleria Passerella, dove ci si dava appuntamento. Una tradizione rimasta salda fino al 2003, quando lo store ha chiuso i battenti. Dietro le sue vetrine un po’ pazze lo stilista ha osservato i mille volti della sua città, perché, come dice lui stesso, «mi innamoro facilmente delle persone. Questa mia natura di bambino che guarda il mondo con l’occhio “tondo”, curioso, mi ha portato ad essere molto aperto. A me piaceva che il negozio non fosse solo il luogo del prodotto, ma anche il punto di incontro, dove la gente si trovasse come a casa propria: questo è stato il successo di Fiorucci».

Tutto è cominciato con un paio di galosce colorate nel 1962. Così è diventato famoso. Narra la leggenda che dopo seguirono i viaggi a Carnaby Street, con una valigia che veniva regolarmente stipata…
La prima volta che sono andato a Londra, era per far visita a mia sorella, che studiava a Cambridge. Invece mi fermai nella capitale, dove trovai tutte le meraviglie del momento. Ho scoperto Carnaby Street, la musica dei Beatles… Una rivoluzione pacifica che io sognavo da tempo. Me ne sono innamorato e l’ho portata qui.

Fu così che ha aperto il primo Fiorucci store, in Galleria Passerella?
Era il 1967. Chiamai ad aiutarmi una scultrice, anziché un architetto, Amalia Del Ponte. I negozi lì intorno si chiamavano “Principe di Galles” o “Duca d’Este”, e vendevano cose super classiche. Il mio negozio invece era tutto laccato bianco, con una scala blu fiordaliso, con magnifiche commesse in minigonna che sembravano delle modelle, e un impianto musicale ricopiato dalle prime discoteche: un’esplosione. Le shopping bag erano gonfiabili e si trasformavano in cuscini. All’inaugurazione la festa si riversò sulla strada. Ad un certo punto si è materializzato Adriano Celentano con la sua lunga auto americana, rosa, con sopra tutto il suo clan. Una festa incredibile, piena di ragazzi.

Erano i tempi della Swinging London: ma della Milano di quegli anni cosa ricorda?
Era una città bella, tranquilla e conservatrice. Non aveva la grinta della modernità: era tradizionale anche nell’abbigliamento. La moda londinese non era ancora arrivata, fatta eccezione per qualche foto sui giornali. L’apertura del nostro negozio ha fatto scattare un meccanismo di modernizzazione: prima si vendevano nei negozi separatamente solo scarpe o vestiti. Invece noi mescolavamo di tutto, compresa la musica. Abbiamo inventato il concept store, ed è piaciuta subito l’idea di trovare in un sol posto di tutto per un pubblico molto speciale.

Gli hippy lo individuarono come un punto di riferimento, dove trovare camicie indiane e montoni afghani. Chi erano i suoi clienti?
Ricordo che c’erano i cortei. Di destra o di sinistra, finiva sempre che i ragazzi entravano in negozio, perché respiravano un’aria “incuriosente”. Sentivano musiche sconosciute, perché le radio libere non c’erano ancora. Vedevano un tripudio di colori. Non capivano bene cos’ero: volevano a tutti i costi darmi una coloritura politica ma non riuscivano. C’erano pezzi pop, ma allo stesso tempo facevo delle campagne animaliste, assieme ai radicali.

Come vestiva Milano a quel tempo? Cosa facevano gli hippies nostrani?
I ragazzi amavano gli abiti usati, che vendevano nei mercatini. La nostra rivoluzione è stata prendere delle divise militari e ridipingerle nelle pentole col superiride. Una divisa verde, triste, se diventa rosa shocking cambia. La moda è questo, nulla nasce da zero, si parte da qualcosa che esiste. Per esempio: ho fatto il fashion jeans, ma il jeans esisteva già. Volevo solo dei pantaloni da donna che valorizzassero il sedere, perché a me piacciono le forme femminili. Playboy ringraziò tanto e scrisse: «Benefattore della società»! Era il ’72, e le ragazze milanesi sognavano un abbigliamento più sexy. È stata una rivoluzione: impressionante quello che accadde con le minigonne, ne vendevamo duecento al giorno.

Nel ’74 arriva il secondo Fiorucci store, e in via Torino è una rivoluzione…
Aveva uno spazio teatrale e un ristorante che serviva per la prima volta in Italia gli hamburger, ma su piatti firmati Richard Ginori, come avevo visto nei ristoranti eleganti in America: era aperto tutta la notte, e le compagnie teatrali venivano lì. C’era una fontana che scendeva a cascata dal primo piano, c’erano delle palme. E nel primo piano c’era uno spazio dedicato ai ragazzi, che potevano venire a vendere gli abiti usati: una ventina di chioschi che affittavamo loro. Nel negozio di San Babila, intanto, passavano i grandi nomi. Era in una posizione strategica, perché tutte le case discografiche erano concentrate nei dintorni delle Messaggerie Musicali. Vennero tutti: Giorgio Gaber, Caterina Caselli, persino Brigitte Bardot e Mina. In quegli anni, Milano comincia ad attestarsi come città della moda.

Oltre a lei si affermano molti altri grandi nomi: Ottavio Missoni, Genny – dove lavora Gianni Versace –, Giorgio Armani. Che rapporti c’erano tra tutti voi?
Andavo spesso a mangiare a La Torre di Pisa, una specie di club in via Fiori Chiari, a Brera. Tutti i fotografi, le modelle e gli stilisti, da Missoni ad Armani, cenavano lì. Ci fermavamo a chiacchierare e così nascevano tanti progetti. Nel tempo libero frequentavo anche molti architetti: Ettore Sottssas, per me un maestro, Alessandro Mendini, Michele De Lucchi. Dall’amicizia con Sottsass e Andrea Branzi nacque l’Alfa Romeo Giulietta che disegnammo insieme.

Gli anni 80. Un’era d’oro, simboleggiata da Keith Haring, che nell’84 viene a decorare il suo negozio di Galleria Passerella. Cosa successe quella volta?
È stato bellissimo. Haring chiese consiglio a Andy Warhol, che gli disse con grande entusiasmo di venire. Lavorò per una notte e un giorno, trasformò il negozio in un’autentica opera d’arte.

Intanto a piazza San Babila comparivano i paninari e gli yuppies.
Ci si appassionava di volta in volta a un marchio e vedevi che tutti lo indossavano. Naj Oleari, El Charro, Uniform. Erano tornati di gran moda i prodotti “definitivi”, quelli considerati immortali, come i jeans Levi’s 501, le scarpe Timberland che noi avevamo venduto per primi, le polo Lacoste. È stato un periodo molto divertente: Milano era diventata la capitale della moda. Versace e Armani erano degli autentici divi, la città aveva un tale prestigio… Contemporaneamente c’è stata anche l’affermazione dei nostri architetti: diventavamo la capitale del design.

Nel ’90 lei ha venduto ai giapponesi il suo marchio. Poi Tangentopoli ha spento le luci sulla Milano da bere. Nel 2003 il Fiorucci store chiuse, la città lo salutò con grande malinconia. Pochi mesi dopo lei ha lanciato la sua nuova linea Love Therapy, dove reinterpreta alcune immagini pop ancora molto amate (i nani, il Piccolo Principe): cosa offre oggi al suo pubblico?
La gente mi ha sempre detto che amava il negozio Fiorucci perché era un posto dove ci si sentiva “amati”, dove c’era la musica, delle belle ragazze. Una terapia dell’amore. Oggi voglio continuare a dire che essere gentili è un dovere di tutti noi. Si possono fare le cose per amore.

E come vede la sua Milano – definitivamente città della moda – oggi? Cosa pensa di un evento importante come l’Expo?
Sono felice che la Moratti abbia ottenuto l’Expo, perché Milano se lo merita, perché è ancora una città ricca di creatività. L’ho scritto in un telegramma al sindaco: «Immagino come sia felice il suo cuore», perché lei tiene tantissimo alla città. Milano ha avuto due sindaci straordinari, lei e Albertini, perché hanno riportato in città la creatività. Oggi bisogna ancora essere ottimisti. Siamo sei miliardi di persone al mondo e io credo che ciascuna di queste persone stia facendo qualcosa per gli altri, per noi. Siamo fortunati.

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