Le metafore sbagliate di Lele Adani

Il problema con Lele Adani non è la troppa enfasi delle sue telecronache, ma la natura pericolosamente sbagliata delle metafore che gli sgorgano dal cuore quando gioca il suo idolo, Lionel Messi. Adani scambia lo stadio per un tempio, e il numero 10 dell’Argentina per Gesù che compie miracoli sotto gli occhi delle folle. Ma il campo di calcio non è la spianata di un santuario e gli spalti non sono le alture del lago di Tiberiade.

Il calcio è metafora della guerra

Il calcio, a livello di Nazionali ancora di più che a livello di squadre di club, è sublimazione della guerra, come lo è in generale tutto lo sport agonistico. Lo sapevano bene i greci, che sospendevano i loro conflitti in tempo di Olimpiadi. Se si vuole fare della retorica attorno ai gesti dei calciatori, benissimo: ma si deve fare ricorso a simboli, metafore, similitudini, ecc. di natura militare o bellica. Il giocatore che segna più reti diventa il “cannoniere” del torneo, l’allenatore vincente è uno “stratega”; le sconfitte più pesanti sono definite “disfatte”; la difesa viene spesso chiamata “la retroguardia”, se subisce duri attacchi da parte degli avversari si parla di “bunker difensivo”, attacchi e contropiedi vengono spesso chiamati “offensiva” e “controffensiva”.

Originariamente l’espressione “scendere in campo” si usava per gli eserciti: oggi è la frase di apertura di ogni telecronaca di una partita di calcio. Prima delle partite delle squadre nazionali si suonano gli inni, che sono simboli dell’unità e dell’identità politica di una nazione, e che normalmente sono ricchi di moniti guerreschi truculenti. Domenica, in occasione della finale Francia-Argentina, i transalpini canteranno: “Alle armi, cittadini. Formate i vostri battaglioni. Marciamo, marciamo! Che un sangue impuro abbeveri i nostri solchi! ”. E gli argentini risponderanno: “Coronati di gloria viviamo, o giuriamo con gloria morir!”.

Adani scomoda sacro e religioso

Lele Adani, invece, non può fare a meno di scomodare il sacro e il religioso, il Vangelo e i sermoni da ordine dei frati predicatori per descrivere le imprese di Lionel Messi. Anzi, Messia. Per l’ex terzino del Brescia, della Fiorentina e dell’Inter il capitano dell’Argentina è Gesù Cristo tornato in terra. Con lui, infatti “La mistica entra in campo”. I suoi passaggi filtranti sono miracolosi tanto quanto l’intervento di Gesù, quello autentico, alle nozze di Cana: “L’acqua in vino da quella posizione”. Ma il più grande giocatore argentino di tutti i tempi non è stato Maradona?, si chiederanno i semplici e i colti (di calcio). Eh, no: Maradona era il Battista, che ha preparato la strada all’avvento di Messi il Messia. Testuali parole dalla telecronaca di Argentina-Olanda: “Ha profetizzato Diego un giorno: apparirà un uomo che prenderà il mio posto”.

Il problema di queste metafore è che alimentano la tendenza a fare del calcio una religione, a trasformare un gioco che già si è deformato negli anni in un business planetario multimiliardario in un culto universale palesemente idolatrico, imposto per via televisiva. Peggio del calcio piegato alla logica del profitto e degli affari torbidi (di cui il mondiale in Qatar è eccelsa epitome) c’è solo la profanazione del genuino senso del sacro, della sincera devozione religiosa con quell’invasamento che è il tifo sportivo scatenato e l’enfasi omiletica dei telecronisti.

Dentro di sé il popolo, anche quello che si esalta per le imprese sportive di questa o quella squadra, sa che si tratta di una falsa religione. La parola l’abbiamo già usata nelle prime righe del commento: “idoli”, cioè simulacri del divino il Quale si tiene bene alla larga dall’oggetto con cui lo si vorrebbe identificare,  è l’appellativo riservato ai migliori calciatori, mentre i sostenitori più accessi vengono definiti “fan”, abbreviazione dell’inglese “fanatics”, cioè fanatici.

Quel tatuaggio di Messi

I primi a ribellarsi alla sacralizzazione del calcio e alla trasfigurazione dei suoi protagonisti sul campo in santi e profeti sono i giocatori stessi, che all’ingresso e all’uscita dal terreno di gioco manifestano la loro riconoscenza al Redentore facendosi il segno della croce (oppure ad Allah tenendo le palme delle mani alzate e rivolte verso l’esterno, se si tratta di musulmani), la loro dipendenza dal Creatore alzando il volto, il dito indice o le braccia verso il cielo per esprimere gratitudine dopo aver segnato un goal. Manifestano coi loro stessi gesti che Dio non sono loro, rifiutano il ruolo di dèi. Ad Adani che intima al microfono “Aprite il cuore e ringraziate che sta giocando ancora per tutti quanti”, replicano silenziosamente che un Altro è Colui che deve essere ringraziato. La cosa è diventata tanto più evidente da quando i calciatori hanno preso a tatuarsi immagini religiose sulle braccia e sulle gambe.

La lista sarebbe lunga e non può essere completa: Simon Kjaer, figlio di un’insegnante di religione luterana, porta sulla pelle un’immagine della Santissima Vergine e una dell’Ultima Cena; Sergio Ramos ha un’immagine della Madonna sul bicipite sinistro e una di Gesù in preghiera sulla schiena; Mauro Icardi, dai tanti figli e dalle tante mogli i cui nomi sono ricamati sulla sua pelle, sulla coscia destra reca tatuato il Santissimo Volto di Nostro Signore, sul polpaccio l’immagine delle tre croci della Crocefissione. Angeli sono raffigurati sotto a un ginocchio nell’atto di abbracciare Cristo e sulla spalla sinistra in compagnia della Vergine Maria. Sulla schiena di Olivier Giroud è tatuata una croce con le ali, sull’avambraccio sinistro il primo versetto del salmo 22: «Il Signore è il mio pastore; non manco di nulla». Non è da meno il celebratissimo Messi, che si è fatto tatuare il Santissimo Volto di Gesù sul tricipite destro. Chi crede di poter fare facile ironia o di dover snobbare questi gesti come subcultura o residui di superstizione farebbe meglio a rileggersi La schiena di Parker di  Flannery O’Connor.

Il capovolgimento delle simbologie

Ad essere dissacranti non sono i tatuaggi a tema religioso dei calciatori, ma quelli fra loro che, come gli inglesi e altri anglosassoni, si inginocchiano non per riverire Dio loro Creatore, ma per una causa politica, che è quella del movimento Black Lives Matter nel mondo anglosassone (inglesi inginocchiati contro il razzismo che si dimenticano la repressione cinese del dissenso ad Hong Kong, in barba a un trattato internazionale firmato dal loro stesso paese, il Regno Unito, le limitazioni alla libertà religiosa nei paesi del Golfo, le persecuzioni contro i cristiani, ecc.).

La politicizzazione dello sport – che dovrebbe essere invece il tempo della tregua, il tempo in cui i conflitti sono sospesi e coloro che si affronterebbero in scontri di piazza o in vere e proprie battaglie trasferiscono la loro inimicizia su un piano simbolico, in una battaglia da cui si esce sostanzialmente incolumi e indenni- va di pari passo con la canonizzazione del calcio, con la pretesa di farne l’unica religione universale che ha pieno di diritto di occupare lo spazio pubblico (le religioni storiche devono restare confinate nella riserva indiana della coscienza privata).

Fino al vero e proprio capovolgimento delle simbologie: il condottiero Messi, che nel volto accigliato e negli occhi fieri che guardano lontano ha i connotati del condottiero vittorioso di eserciti, viene trasfigurato nel Gesù che fa del bene a tutti i piccoli che incontra sul suo cammino, nel salvatore universale per amore. Esplode Adani: “Elargisce amore attraverso una palla di calcio, questo sta facendo Messi!”. Ma no, Messi elargisce la cattiveria necessaria a vincere una partita/guerra: protesta con gli arbitri, intimidisce gli avversari, dice parolacce, esagera le conseguenze dei falli che subisce o addirittura li simula. Come fanno tanti giocatori. Più di loro, dispone di una classe cristallina e di una freschezza fisica che gli permettono di essere oggi forse il migliore giocatore al mondo. Ma andate a dirlo ai giocatori messicani, agli olandesi, ai croati, che Messi “elargisce amore” con le sue giocate. Poi non venite a lamentarvi che i calciatori sono maleducati…

Foto Ansa

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