Zucchetti (Bocconi): «Il problema non sono le Province, ma i dipendenti pubblici»

«Pensare di poter ridurre la spesa dello Stato senza intervenire sull’occupazione pubblica è un controsenso». Intervista Roberto Zucchetti, docente di economia dei Trasporti all'Università Bocconi

Ci sono interventi per ridurre la spesa pubblica che mettono tutti d’accordo: il taglio delle Province è certamente uno di questi. Da anni si discute della loro abolizione che, con la spending review, sembra essere stata parzialmente soddisfatta. Ma davvero l’esistenza delle amministrazioni provinciali è la palla al piede del risparmio statale? «La risposta è no», spiega Roberto Zucchetti, docente di economia dei Trasporti all’Università Bocconi di Milano e componente del Certet, Centro per l’economia regionale. «Non si tratta di trovare un cattivo o un colpevole», dice a tempi.it. «Si tratta di modificare profondamente tutta la struttura dello Stato e delle autonomie locali, di avere buon senso, pazienza, l’equilibrio e la forza di cambiare mantenendo intatto ciò che funziona».

E le province funzionano?
Dipende. In un nostro studio per l’associazione delle Province, abbiamo osservato come alcune fossero molto efficienti e altre tragicamente inefficienti.

Come metterci mano?
L’obiettivo non è prendersela con le Province, ma ridurre la spesa pubblica. Qualche anno fa si diceva: “Più società, meno Stato”, io credo che sia questo il punto. È venuto il momento di concretizzare questo slogan. Siamo arrivati al limite e c’è rimasto poco tempo per prendere decisioni importanti e complesse.

Ora si pensa di eliminare quelle con una popolazione sotto i 350 mila abitanti e con un’estensione inferiore a tremila chilometri quadrati. È un buon inizio?
Sì. Da tutti i nostri calcoli, con poche eccezioni, a spendere di più sono le province più piccole. È una questione di convenienza: grazie agli strumenti di cui possiamo disporre oggi l’amministrazione è in grado di gestire mezzo milione di persone al posto di centomila. Ciò per lo Stato si traduce in un notevole risparmio. Popolazione ed estensione geografica sono due criteri saggi per decidere dove tagliare, anche se, in alcuni casi, rischiamo di eliminare qualche Provincia efficiente e lasciarne qualcuna inefficiente.

C’è il problema dei posti di lavoro dei dipendenti pubblici.
Parliamoci chiaro: pensare di poter ridurre la spesa dello Stato senza intervenire sull’occupazione pubblica è un controsenso. Se vogliamo tagliare la spesa e ridurre le tasse, dobbiamo ridurre il numero dei dipendenti pubblici. Non si può pretendere lo Stato più leggero, pagare meno tasse e poi difendere qualunque categoria di dipendenti pubblici.

Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, qualche giorno fa ha affermato: «Via tutte le Province, non gli impiegati».
Bonanni fa il suo mestiere: è necessario che dica così, ma rappresenta una parte del problema. Tocca alla politica, che rappresenta l’interesse di tutti, fare scelte equilibrate. Sia chiaro: non si tratta di “buttare via” i dipendenti pubblici, ma di costruire percorsi di ricollocazione. In un momento in cui i dipendenti privati perdono il posto di lavoro e lo stipendio, penso che al dipendente pubblico si possa chiedere di cambiare la propria mansione e anche il proprio posto di lavoro. Sarà antipatico, nessuno ha coraggio di dirlo, ma occorre intervenire. “Fammi vedere con quante persone fai quel servizio e quanto è buono”, diventa il criterio determinante.

Avvenire, qualche giorno fa, ha messo in guardia sugli accorpamenti, segnalando l’esperienza francese dell’intercomunalità, che alla fine ha visto lievitare la spesa. Potrebbe succedere anche in Italia?
Il rischio c’è. Penso all’esperienza di alcune comunità montane: hanno fatto insieme la raccolta differenziata dei rifiuti, i trasporti pubblici, la polizia locale, i servizi sociali. Nella maggioranza dei casi si è prodotta una sovrastruttura, più costosa e con pochi risultati.

Nel quadro di razionalizzazione delle Province, si inserisce il capitolo delle “città metropolitane”. A Milano se ne parla già da tempo. Anche le altre città che sarebbero interessate sono pronte alla “rivoluzione”?
Penso di sì. C’è la coscienza che tra le grandi città e i loro hinterland i confini siano sempre più labili; sia geografici, sia per quanto riguarda lo spostamento per lavoro dei cittadini. Anche qui le resistenze ci saranno: per ogni campo di amministrazione ci sarà un solo responsabile e le città dovranno rinunciare a un pezzo della loro autonomia.

È realistico che entro l’anno si trovi “la quadra” su questo taglio?
Rispondo con un’immagine da giardiniere: in certi casi per far vivere la siepe, bisogna intervenire con un’energica potatura.

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